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Sospesa sul Ponte di Oporto. Portogallo

di Emanuela Gizzi
Los Barcos Rabelos Pht emanuela gizzi Mapping Lucia

Quel Ponte di Oporto mi ha stordita: un luogo di ferro senza sentimenti che, nell’attraversarlo, lascia inquieti e traballanti

Viaggiare in macchina non ha prezzo

Al Ponte di Oporto ci sono arrivata dopo un paio di giorni di viaggio, tra la traversata della Spagna e i primi piccoli villaggi montani incontrati dopo il confine portoghese.

Quel giorno era già iniziato a gonfie vele. Aprivo il mio sguardo alla costa, che era frastagliata, sabbiosa, poi ventosa, spettacolarmente dipinta dai surfisti e poi dai set di aquiloni.

Ogni immagine che scivolava dal finestrino sembrava un quadro messo lì soltanto per me. Per me e per Vasco, che sembrava aver scritto i pezzi e la musica per quegli scenari.

I viaggi in macchina lo fanno. Si riesce sempre a catturare l’intensità dei paesaggi attraversati, vivendoli come un  trambusto emotivo. E la musica fa da collante, allinea pensiero e definizioni, perché se ne abbia un ricordo estremo.

Seguendo la strada del liquore

La regione del Douro prende il nome dal fiume che ne attraversava le vallate, quel fiume che -essendo navigabile- aveva permesso di raggiungere i vigneti e di conseguenza la diffusione del famoso Porto, uno dei liquori più bevuti al mondo.

Mentre le spiagge correvano impetuose, pensai che se fossi entrata in una delle cantine, descritte nella guida, ne sarei uscita storta, rimescolata, metà sangue e metà uve.

Sorrisi, poi vidi spuntare Oporto. Formicolava in lontananza come una grande bolla ricoperta di luci e, a mano a mano che mi avvicinavo, me la sentivo crescere intorno, avvolgermi con la sua modernità e poi nella sua artisticità.

Mi inurbò, mi adottò, non lo so spiegare, mi trafisse e mi regalò una delle emozioni più forti della mia vita. In un attimo.

Ero concentrata su dove andare e non capivo bene come era fatta questa città.

Stava tramontando il sole ed, in alcuni punti -più agglomerati di altri- avevo poca luce per leggere sulla cartina. Così, attratta dal nome “Vila Nova De Gaia”, che era -poi- il porticciolo dove si beveva il Porto, mi lasciai condurre dalle indicazioni stradali. Queste -ne ero certa- mi avrebbero consegnata a quella famosa cantina dove era volato il pensiero, poco prima.

Il porte di Oporto pht emanuela gizzi Mapping Lucia

Ribeira Negra v/s Ponte di Oporto

Passai sotto una galleria e, Generale, rieditata da Vasco, mi faceva da sottofondo.

Avevo la testa invasa di note scure e, negli occhi, il nero del tunnel, i suoi rimandi ritmati di luce e ombra, luce e ombra. Quando emersi fui aggredita da un’istallazione sul lungo muraglione a sinistra.

Sembrava un murale ma, era chiaro, che non lo fosse. Era invece un unico grande pannello su cui si muovevano diverse scene, come degli sketch di un cortometraggio o le diapositive di in un rullino o, ancora meglio, il vetro di un acquario.

Non saprei dire se fosse una storia, se ci fosse un legame ed anche un finale, avevo solo percepito ci fosse una trama o un messaggio dietro quella sovrapposizione di intenti.

Mi colpì il colore omogeneo degli istogrammi –turchese, con delineazioni di grigio- e poi le variazioni di cielo, prima nuvoloso e poi carico di gocce -come pioggia solenne-. Alla fine arrivò un intreccio di linee che potevano essere squarci di lampi oppure raggi di sole.

Non sapevo di cosa parlasse, in quel preciso momento: stavo guidando e non potevo fermarmi, ma mi piacque, non era cubismo e nemmeno realismo, sembrava in bilico tra due mondi, un po’ come me.

Solo dopo mi informai sul titolo, si chiamava Ribeira Negra ed era il dipinto di un noto pittore, un certo Julio Resende, uno studioso del Simbolismo.

Dall’”acquario” suggestivo di Resende, al Ponte Dom Louis I, c’è la distanza di un secondo.

In volo sul Fiume Douro

Ed ecco l’emozione più grande, in un susseguirsi di battiti. Guidavo, ma non sapevo più se stavo conducendo una macchina o se invece un jet.

Riavvolgo il nastro: inurbamento, luce debole, Generale, tunnel, note scure poi il dipinto, una tempesta di turchese e, ad un tratto, l’entrata al ponte.

E fino a qui, nulla di strano, anzi, pensai perfino “quanta ferraglia!”.

Ma, nel bel mezzo del ponte, mi trovai tra due mondi, spalancati lì davanti, nell’assurdo vuoto. Tangibili, si stagliavano con grande forza sui due lati del letto, illuminati entrambi da un sole violento che stordiva, riempiva, implodeva e poi era ancora lì, intatto.

Fu un secondo netto, meno di un metro di percorrenza con la macchina. Il volante, poi, dimezzava le sensazioni: mi dovevo occupare anche della strada davanti e delle altre macchine; così dei parapetti laterali, che mi occludevano la vista, sotto.

Eppure, nonostante i sensi bloccati, ero assolutamente alienata da quel ponte. Poi mi resi conto che non era la “ferraglia”, in sé, ma il vuoto, a reggere in piedi il pathos, e il vuoto a dargli tutto quel potere.

Era un ponte con un grande arco centrale e, sopra e sotto, correvano due strade: una per soli veicoli con un passaggio laterale per parte, pedonale; ed un’altra ferrata, per il passaggio della metropolitana, ad un’altezza vertiginosa. Insomma, arrivai dall’altra parte con una nostalgia inspiegabile del momento appena vissuto.

Le rive del fiume Douro Pht Emanuela Gizzi Mapping Lucia

Il ponte Dom Louis I a piedi

Il corridoio pedonale, del Ponte di Oporto, lo sperimentai una sera che rientravo da un giro fotografico.

Ora, questo dettaglio del Dom Louis I -lasciato così- mi sarebbe potuto sembrare solo un miraggio, l’assurda visione di una me, pazza. Invece, quando lo percorsi a piedi, si completò l’immagine di me, lì sopra, che calpestavo il nulla.

Di me che guardavo giù, e che, se pure non sopporto il vuoto, non sopporto gli aerei, non sopporto di sentirmi così sospesa, mi sentivo però sicura.

Le increspature dell’acqua avevano catturato il cielo e lo trattenevano, ed io ero lì a seguirne la metamorfosi, ipnotizzata. Rimasi ad osservare il cielo nell’andiriviéni fluttuante del fiume fino a quando, questo, non si scurì. Ero l’unica persona a piedi, sul ponte. L’unica testimone di una bellissima sgranellatura della luce che, lentamente, si andava assottigliando alla notte.

In un attimo l’irrintracciabilità dell’orizzonte mi fece perdere visivamente i punti fermi ma il languire olioso dell’acqua, in quell’oscurità perfetta, invece, mi stabilizzò.

Oporto, culla del Portogallo

E mentre me ne stavo appesa sul ponte capii come era fatta Oporto. Era una culla.

La parte da cui ero arrivata in macchina -la città alta (se posso chiamarla così)- era un pendio, sul quale si sviluppavano -in pendenza- il centro storico, la piazza, la vita cittadina, l’Antica Ribeira.

L’altra parte invece saliva da Vila Nova De Gaia e si arrampicava moderna sulla collina di fronte. Il molo e le cantine erano un richiamo alla leggerezza, la passeggiata di fianco a Los Barcos Rabelos -le tradizionali imbarcazioni adoperate per il trasporto del liquore- un’esperienza indimenticabile.

Entrambe le colline si immergevano nell’acqua del fiume e scomparivano. E quella distanza tra loro sembrava il taglio netto di una spada che, nel corso dei secoli, era stata riempita dal Douro, molto generoso e molto produttivo.

Un fiume che, l’avrebbe allontanata per sempre dall’altra estremità ma ricongiunta alle terre più lontane, a quei terrazzamenti coltivati a vite, e infine al mondo, dove il Porto viene esportato.

Il Ponte di Oporto mi stregò. Quello stare a guardare il cielo attraverso il fiume mi diede per sempre l’idea che, un punto di vista solo, non basta mai per capire l’insieme delle cose.

PUOI LEGGERE GLI ALTRI LUOGHI CHE HANNO LASCIATO UNA TRACCIA NEL MIO CUORE:

Badija come dire miele come dire api      I tredici chilometri fino all’Holdermühle      Cabo da Roca, più a Ovest d’Europa

 

 

 

 

Emanuela Gizzi Fotografa ideatrice di Mapping Lucia

Sono prima di tutto una viaggiatrice, annuso la vita e ne trattengo le radici. Quindi scrivo per piacere ma anche per lavoro. Scrivo perché senza non saprei starci. E poi fotografo perché la fotocamera è il mio psicologo personale. Cammino sempre con un animale di fianco, un gatto un cane un cinghiale un ippopotamo. Insomma converso. E poi scrivo di nuovo.

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