LA FRANCIGENA DI CARAMEL
_ s e c o n d a p a r t e _
Qualche settimana dopo sentii un forte trambusto. Piazza dell’Angelo era invasa di persone. Gli altri gatti si erano rifugiati nei vasi, sugli zerbini, dietro le grate delle finestre. Le orecchie appuntite. Eravamo tutti attenti a cosa ci sarebbe accaduto ma non sembrava badassero particolarmente a noi.
Iniziarono a trasportare panche e tavolini, la porta della Chiesa di San Michele Arcangelo venne spalancata, miracolosamente.
Alcuni, con dei grossi grembiuli, stavano istallando un fornello e, di fianco, altri scaricavano da un furgone dei pentoloni giganteschi, piatti, bicchieri. Dopo un’oretta che ero lì e guardavo al via-vai con grande interesse, cominciai a sentire un profumino inebriante.
Dissero “l’amatriciana deve pizzica’, dai co’ sto peperoncino”. Io deglutii. Smorzarono il mio interesse. Con il peperoncino non l’avrei potuta assaggiare. Che vizi questi uomini!
Un attimo dopo, ero davanti al portone della Chiesa. La sua apertura mi incuriosì. Entrai con passo felpato. Un uomo per poco non mi pestò la zampa. Feci un balzo dentro e mi nascosi in un angolo. C’era un silenzio innaturale, visto il chiasso fuori. C’era un odore stantio e una bella luce che filtrava dalle finestre. In alto c’erano degli angeli e, intorno, i muri erano scrostati. C’era un misterioso mutismo dei muri e nonostante non ci fosse nulla di curato, era bellissima. Una signora dai capelli d’argento disse a un’altra: “sotto questo intonaco ci sono affreschi del quattrocento, ma servono dei fondi per restaurarli”.
Pensai, in cuor mio, di aver ascoltato un segreto tra le due donne, perché parlavano a bassa voce, così promisi a me stesso che non l’avrei raccontato a nessuno. Nemmeno a Missi, i suoi occhi dolci mi confondevano sempre ma, stavolta no. Era un segreto importante.
Quel giorno ci fu una festa bellissima, alcuni erano vestiti con abiti vecchi, dai colori pastello. Sembravano fuori moda. Recitarono in mezzo alla piazza dopo una camminata sulla Via Francigena. Arrivarono dalla Porta da Piedi e, con loro, il centro storico si riempì di gente, di passi. Normalmente riconosco i pellegrini dagli scarponi ma, quel giorno, quasi tutti li indossavano.
Mi misi ad annusare in giro, fino a quando, non mi colpì l’odore di uno di loro. Mi strofinai alla sua gamba, lo circuii di smorfie e, solo quando si fu liberato dalla conversazione con un uomo, mi notò. Si chinò e mi disse “Ma tu non sei Caramel?”
Sembrava stupito di vedermi. Lui era su una barella il giorno che ci siamo incontrati la prima volta. Era successo qualche anno prima. Una spalla lussata e una caviglia rotta, questo era stato il responso del medico.
L’Ambulanza si era fermata poco più su, ma l’intervento era avvenuto nella piazzetta, davanti ai miei occhi. Così potei assistere alle pratiche di primo soccorso.
“Dai forza, resisti” gli avevo detto “sei forte, se vai in bicicletta sei forte, che vuoi che sia qualche graffietto”.
Lui aveva ansimato per il dolore, qualche minuto, poi l’infermiere gli aveva iniettato un liquido nel braccio e si era rilassato. Fu allora che i suoi occhi mi avevano visto.
“Come si chiama il gatto?” chiese con un filo di voce.
Intorno si era formato un circoletto di persone. Tutti erano usciti di casa tranne la mia padrona che era al lavoro.
“Si chiama Caramel” disse una bambina. Lucrezia. Abitava poco dopo la chiesa.
“Caramel, grazie, allora!”
Lui fece solo in tempo a dirmi grazie una seconda volta e poi fu portato via dall’Ambulanza.
Non seppi mai perché mi ringraziò. E in quel momento lo ritrovavo, era in piedi, stava bene. Era incredibilmente sorpreso che io fossi lì.
“Gattone rosso, ti ricordi di me?” mi passò la mano grande lungo tutto il pelo, fino alla coda.
“Che fai Davide, parli con i gatti?” una signorina spuntò fuori con in mano dei panini.
L’odore della porchetta è inconfondibile. Buonissima.
Mi misi immediatamente seduto composto, in attesa di uno slancio di generosità.
“Sai chi è questo gatto? Quello di cui ti ho parlato. Era qui quando sono caduto. Ti ricordi, te l’ho detto, non me l’ero sognato!” lui, febbricitava per la scoperta.
E, come sperato, staccò un pezzo di porchetta dal panino e me la mise sotto il naso.
Era così appetitosa! La mandai giù senza nemmeno masticarla.
“Ah, sì, il gatto che ti ha parlato!!!” lei si mise a ridacchiare, la porchetta tra i denti. Aveva dei bei denti ma in quel momento mi parve brutta.
Era vero, io gli avevo parlato. Ma perché ne dubitava? Insomma, anche io li sento parlare, e tutti i giorni.
“Non darle retta, tieni, questo è per te, speravo di rivederti” e di nuovo, fece arrivare sotto il mio naso un altro bel pezzo di carne. Io mi ingozzai, poi nel guardare i sanpietrini e mi ricordai dove fossi. La Francigena.
Mi ricomposi.
Quanto siamo avidi noi gatti, a volte.
“Ma sarà di qualcuno?” disse guardandosi in giro. Per un attimo ebbi paura mi volesse sollevare e portare con sé. Mi stava simpatico, si vedeva che era buono, ma un altro trasloco no. Non lo avrei sopportato.
Mi diressi verso la porta di casa e mi misi seduto lì davanti. Lo fissai a lungo e fissai la porta.
“Vedi che capisce tutto? Abita lì, scommetti?” si rivolse alla signorina e poi, di nuovo mi guardò pieno di affetto “allora ciao, Caramel, e grazie ancora, sono felice di averti incontrato di nuovo”.
Mi commossi un po’, non lo nego. Noi non piangiamo, siamo forti, però sappiamo come farci capire. Mi allisciai di nuovo alla sua gamba e poi mi rotolai in terra, qualche capriola e via la tristezza. Anche lui se ne andò contento.
Quella festa era dedicata all’Arcangelo Michele, tutti avevano camminato per lui ma io non lo avevo visto arrivare. Aspettai ma ero stanco, mi acciambellai su un secchio e mi addormentai.
La mattina presto la mia padrona mi scansò via “Mi serve il secchio, Caramel, tra un po’ passano a ritirare la plastica, dai, scendi”
E infatti di lì a qualche minuto venne la signora simpatica che porta via i rifiuti.
Io sbadiglio grande la mattina, la mia bocca sembra quella delle tigri e lei mi rifà sempre il verso. È buffa.
Anche quella mattina mi fece una smorfia, raccolse le buste e, dopo qualche minuto di rumori insopportabili, la piazzetta tornò silenziosa.
Quello è il momento che mi piace di più. Mi carico. Respiro l’aria fresca e i miei polmoni esplodono di gioia. Mangio. Mi stiro tre, quattro volte. Giro in tondo e poi torno sul secchio. Mi riappisolo fino a quando non si muove l’aria. Fino a quando non sento quel rumore.
Gli scarponi sui sanpietrini, infatti, emettono un suono unico.
I miei baffi frizzano. Mi alzo e aspetto. Spesso ci sono anche i bastoncini a fare un doppio suono, quindi riesco a sentirli da che varcano via XX Settembre. È un tic-tac piacevole che annuncia dei nuovi viaggiatori e, ogni volta, mi domando “Chissà dove sono diretti, chissà da dove vengono, cosa faranno nella vita?”.
Questo passaggio di gente è meraviglioso ma vorrei saperne di più. Invece resto solo una banca di pensieri interrotti.
Una volta ho pensato, malauguratamente, di seguire un uomo, che non era il solito uomo. E lo capii dal suono delle sue strane bacchette. Non facevano tic-tac ma tac-tac-tac, cioè un suono unico. Quando comparì dalla via, vidi che aveva una gamba sola. Mi si arricciarono i baffi.
“Non starà seguendo la Francigena!” mi chiesi stralunato.
Ma la sua tenuta, la fisicità, lo sguardo libero mi fecero supporre esattamente il contrario.
Arrivò in modo silenzioso. Se non avessi un udito così sviluppato, mi sarei accorto di lui solo dopo il suo ingresso in piazzetta dell’Angelo. Però, era uno di quelli con il passo deciso, nonostante la sua gamba fosse sola, ad accollarsi tutto il viaggio.
Si fece scivolare dalle mani quelle strane bacchette. Le poggiò sul muretto, con attenzione.
Mi intrufolai tra le due, deciso a studiarle bene, da vicino. Erano più spesse e avevano una linea spaziale. Sulla lunghezza c’erano dei nomi. In qualcuno di questi, riconobbi delle città, di cui avevo sentito parlare.
Mi sentii accarezzare di colpo. Quasi mi misi paura. Il suo tocco era gentile nonostante le sue mani avessero delle grandi vesciche. Di solito sono le donne a lamentarsi delle bolle d’acqua, si sfilano i calzini spesso, davanti a me, e verificano la condizione dei piedi. Lui no, non si lamentava, osservò soltanto la condizione del palmo poi riprese ad accarezzarmi.
Un gruppetto di persone arrivò all’improvviso mentre l’uomo si stava complimentando con me, per il mio pelo, i miei occhi verdi. Io ero in estasi.
“Ti abbiamo preso un panino ti va?”
L’odore di prosciutto mi passò davanti al naso. Lui afferrò il panino ma non lo mangiò, lo ripose nello zaino. Mi strusciai allo zaino ma nulla. Quello non si riaprì.
“Mancheranno quattro ore, ci rimettiamo in marcia?” disse una ragazza energica, luminosa.
“Mi passi un piedino nuovo per la Katana?” l’uomo si rivolse alla ragazza, la mano protesa a ricevere qualcosa.
La Katana era la strana bacchetta a cui cambiò la parte finale, usurata e sporca di fango.
“Vieni con me?” mi disse a un certo punto l’uomo e mi fece l’occhiolino. Aveva una solarità nello sguardo che mi conquistò.
E lo seguii fino alla scalinata, poi fino in fondo, sulla strada. Ogni tanto si girava a guardarmi. E io continuavo a seguirlo. Non so dire perché, era magnetico. Mi ritrovai a percorrere un pezzo di Francigena, nella parte in cui il verde ricompare dall’asfalto. Gli odori dell’erba, del finocchio selvatico mi solleticavano e mi sospingevano avanti. Volevo sentire nuove cose, la linfa degli alberi dimenticati, vedere dove andavano i pellegrini, dopo essere passati da me.
E era incantevole. Il verde, dico. Era elettrico, pieno di vitalità. Mi sentii come a casa, quella casa che avevamo lasciata anni prima.
L’uomo proseguiva fiero davanti a me, la sua ombra era simpatica, sembrava un’altalena. Per un lungo tratto di strada il fruscio delle foglie e degli alberi mi cullò, come la sua ombra. Non parlava molto ma sentivo che aveva qualcosa di diverso dagli altri pellegrini.
A un tratto si spezzò l’incantesimo di cui ero rimasto vittima.
Al gruppetto, cioè a noi, si unirono altre persone, questi parlavano animatamente.
“È davvero un onore conoscerti” gridò uno stringendo la mano all’uomo. Poi disse agli altri suoi compagni di viaggio “Lui è l’atleta paralimpico di cui vi avevo parlato”
“Non riesco a crederci che ti abbiamo incontrato” disse una signora “Possiamo avere una foto con te?”
Dopo un po’ che eravamo lì, si fecero una fotografia e ci tennero che si vedesse la pietra sotto i loro piedi. L’omino, inciso sul marmo, era il famoso pellegrino di cui avevo sentito parlare. Il simbolo della Via Francigena.
Mi sembrò un varco. Una porta. L’inizio di un altro mondo.
Improvvisamente guardai indietro, mi ero allontanato tantissimo. Troppo. Se avessi proseguito, chissà dove sarei andato a finire. Come sarei potuto tornare.
“Ehi, facciamoci una foto col gatto?” esclamò uno. Si avvicinò per prendermi, senza peraltro chiedermi se fossi d’accordo.
“No lasciatelo, si spaventa” disse l’uomo con la Katana sollevata.
Io fuggii distante. Non lo salutai neanche. Ero preso da mille tormenti. Tornai indietro e, per fortuna, il naso sopraffino, mi riportò a casa.
Le paure, ma anche lo stupore e gli odori, avrebbero dovuto ricaricarmi. E, in un certo senso, respiravo ancora, meravigliato quella strada, oltre me. Ma, nel tornare, mi salì un rigurgito amaro alla bocca.
Mi sarei aspettato di trovare rispetto per la Natura, pulizia, una manutenzione appropriata per valorizzare tanta bellezza. Quella era una strada che veniva da lontano e arrivava lontanissimo. Univa culture diverse e io ero un testimone di quanta gente la percorresse, di quante situazioni avevo visto risolversi grazie al suo potere.
Invece, lungo il ciglio, mi trovai ad arrancare in mezzo alla sporcizia. Andai, perfino, a sbattere contro una lavatrice. La mia padrona ne ha una uguale ma la tiene in un ripostiglio. Cosa ci faceva lì in mezzo a un luogo del cammino?
>> C O N T I N U A
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LA FRANCIGENA DI CARAMEL – 1 PARTE
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