LA FRANCIGENA DI CARAMEL
_ p r i m a p a r t e _
Sono seduto, aspetto che passino. La stagione è quella. Non è caldo, però si sta bene, c’è una temperatura adatta per camminare, rubare del tempo alla fretta. E mentre aspetto, vi racconto qualcosa della mia storia.
Tre anni fa passarono di qui due ragazzi. Mi piacevano molto, il loro passo era identico, non solo nel ritmo ma anche nella falcata, si poteva pensarli amici, o innamorati, o fratello e sorella. Non parlavano mentre venivano giù per via XX Settembre, ma erano legati da un’energia invisibile. Il parlare gli era inutile.
Si fermarono all’unisono di fronte alla Chiesa di San Michele Arcangelo, allungarono il collo verso l’alto, si scambiarono dei commenti e provarono a sospingere il portone, ma quello era irrimediabilmente chiuso.
La ragazza allora mi notò. Vide anche la fontanella di fianco. O forse fu il contrario. Si avvicinò con un bel sorriso. Lui la seguì e le mani di entrambi mi scivolarono sul pelo. Io sono uno smorfioso. Lo dicono le persone che abitano nel centro storico, ma solo perché mi prodigo verso le coccole, quando le vedo arrivare.
Questa grande opportunità,di conoscere tante persone, succede da pochi anni. Da quando un sindaco ha ritrovato nelle carte comunali il passaggio, in questa zona, della Via Francigena. È successo così che, mentre prima mi accontentavo di qualche lisciatina, adesso sono oberato di lavoro.
Non è facile accogliere, soprattutto quando arrivano in gruppo e si fermano solo il tempo di un sorso d’acqua. Io però mi siedo sul muretto, il petto in fuori, gli occhi attenti, in modo che siano loro a venire da me. Non resiste nessuno, ve lo assicuro.
Spesso li vedo proseguire, come se non avessero bisogno di fermarsi, ma poi mi vedono e allora -spinti dall’impulso che alberga in chi viaggia lento- tornano indietro e assaporano l’istante.
E io, ovviamente, annuso le loro mani mentre -queste- mi riempiono di complimenti. Memorizzo il loro odore.
Riesco a tenere a mente l’odore di circa mille persone. C’era scritto su un articolo di giornale.
E, qualche volta, mi è capitato di sentire passare qualcuno che era già stato qui. In quelle occasioni ho avuto slanci da ruffiano, lo ammetto, ma pensate a quanto è emozionante sentirgli dire “Eccolo il nostro amico Caramel, sapevamo che ci avresti riconosciuto”.
E sono persone che vengono da ogni parte d’Europa. Quindi ho imparato anche l’Inglese. Non è difficile, basta sentirsi inglesi per esserlo, o francesi, o spagnoli. A volte provo a capire cosa li distingua da me, da noi, per migliorare il mio approccio, cambiarlo, se fosse utile. Ma ho capito che, l’unica cosa che abbiamo di diverso, sono i piedi, loro ne hanno due e io quattro.
Quei due ragazzi, invece, qualcosa di diverso lo avevano. Lei era arrivata sorridente, mi aveva preso i baffi tra le dita e li aveva allungati per giocare, lui aveva sfiorato la mano di lei e poi era passato a pizzicare il mio orecchio. Io ero stretto tra loro due e mi sentivo un bambino in una culla.
Si fermarono a lungo con me.
“Ti piace il prosciutto?” mi chiese la ragazza, a un certo punto. La mia lingua rispose per me. Lei sorrise divertita. Io fui delicato, presi i pezzetti che mi porse con galanteria. Lei aveva una mano bellissima, profumava di mandorla.
“Dovremmo decidere, prima o poi, cosa fare” disse il ragazzo e mi sembrò preoccupato, tanto che per un secondo fermai il mio ruminare. Poi proseguì “Rami? Non pensi sia il caso di parlarne e …”
Lei si girò brusca, tutta l’armonia di poco prima le era scesa dal viso “Non ora, Luca”
Guardai entrambi e deglutii. Rami e Luca. “Non litigate, vi prego”. La mia coda si arricciò, le mie zampe si mossero verso l’uno e poi verso l’altra. Col muso mi infilai nella mano di Rami e poi in quella di Luca. Il pelo dei gatti è magico, solletica il buonumore. Mi sdraiai a terra, pancia in aria, e feci due-tre di quelle posizioni che strappano un sorriso. E lo vidi comparire, di riflesso, sul volto di entrambi, allora proseguii per qualche minuto.
“Come si chiamerà?” lei mi guardava titubante e poi provò a indovinare “Forse semplicemente Rosso”
“Forse Red” aggiunse Luca, cittadino del mondo.
No, io mi chiamo Caramel. Mi guardai intorno, non c’era nessuno che potesse dirglielo.
“Caramel, mi chiamo Caramel… cavolo”. A volte è difficile comunicare.
Io ad esempio vivevo in campagna, con la stessa famiglia con cui vivo ancora oggi, nel centro storico. Ma quando ci siamo trasferiti non riuscii a fargli capire che non volevo andarmene da casa mia.
C’era una Natura meravigliosa, lì, l’odore di resina la mattina, la terra battuta, il cielo aperto e, quando non c’era foschia, riuscivo a vedere le linee di Roma. La notte, il buio era il rifugio di milioni di lucciole e allora mi pareva di sognare quando, tutte accese, si mettevano a danzare nell’aria.
Durante il viaggio, mi sono detto, intanto parto, poi chissà, magari sarà più bello.
Invece, quando arrivai qui, mi parve di morire. Il cielo ristretto dai tetti delle case, niente odori se non quelli degli escrementi che non vengono raccolti, nessun divertimento. Laggiù correvo dietro alle farfalle, ai grilli, mi facevo le unghie sulla corteccia degli alberi, facevo camminate suggestive.
Insomma, mi sono dovuto riprogrammare.
Non cambiarono le razioni di cibo, per fortuna, e nemmeno le coccole. Quindi, decisi che avrei dovuto adattarmi. Ho fatto amicizia con i gatti di qui. Sono un po’ poltroni, a dire la verità. Dormono tutto il giorno. Giusto qualcuno -ogni tanto- alza la coda e viene ad accogliere i pellegrini.
Io invece da quando c’è la Via Francigena sono sull’attenti, ascolto e faccio il mio dovere.
“Senti Luca, credo che dovremmo lasciar stare” quella ragazza mi prese in contropiede, ero assorto nei miei pensieri quando finalmente riaprì il discorso.
“Io non credo Rami, i bambini non sono un giocattolo che puoi riportare al negoziante. Lui c’è. Vive già in te” la guardava così commosso che mi si illanguidirono gli occhi. La guardai anche io così, le pupille più grandi che potevo.
Lei mi vide e mi strofinò le dita sulla testa.
“Siamo troppo giovani, lo capisci? Guardaci! Ci piace viaggiare, non lo potremo fare più. Ci piace uscire con gli amici, nemmeno quello potremo fare più. Un bambino è impegnativo. Non abbiamo nemmeno uno straccio di lavoro. Dove andiamo?”
Il suo discorso non faceva una piega. Ma io non capivo dove stesse questo bambino.
“Senti, io so che ce la faremo. Ti ricordi chi siamo? Noi siamo quelli che hanno liberato ottanta poveri cani destinati alle lotte clandestine. Siamo quelli che un sogno ce l’hanno. E poi non siamo soli. Ci sono i miei, i tuoi. Rami, io lo voglio questo bambino” si mise seduto tra me e lei, premuroso, le mani a cercare le sue.
L’avevo visto nei film romantici: quando le persone si scambiano simili gesti significa che si amano. Io non ero innamorato, non credo. Però Missi mi piaceva molto. Le giravo intorno e l’annusavo. Si poteva chiamarlo amore?
Tornando a questi due ragazzi, invece, rimasi deluso quando lei sfilò via la mano dalla stretta di Luca. Era così dura nello sguardo.
“Adesso andiamo, ne parleremo al rientro. Voglio camminare, ho bisogno di stare senza pensare a nulla, ho bisogno di vedere altro, siamo partiti per questo, te lo ricordi?” perentoria, smorzò la conversazione.
Ripresero gli zaini. Mi coccolarono un altro po’, poi se ne andarono. Lei, sola, si girò due volte a guardarmi. Io allora le sorrisi.
Tutti pensano che non sorridiamo, ma è inesatto. E lei doveva saperlo perché mi ricambiò.
Che peccato, non risolsero lì la cosa. E spesso funziona così. Chi passa, arriva già con in bocca delle parole, risposte, domande e io mi catapulto nei dialoghi, mi piace ascoltare. Capisco quasi tutto ma non arrivo alla conclusione perché se la portano via con i passi. Tutto mozzato.
“Caraaameeel, vieni?” la mia padrona mi chiama. Faccio una pausa, poi continuo a raccontarvi questa storia.
>> C O N T I N U A
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