PRIMA PARTE
_Timo Speziani_
Timo Speziani se ne sta seduto floscio sulla scrivania. Il momento propizio di ispirazione che lo aveva spinto a scrivere la sua autobiografia si è inceppato improvvisamente qualche giorno fa e da allora non ha fatto altro che imprimere scarabocchi sull’agenda.
Fuori, le ultime foglie rosse cadono, una dopo l’altra, coprendo l’asfalto di brio.
Timo vive in un complesso residenziale di Garbatella che somiglia a un piccolo quartiere nel quartiere. I palazzi si alternano agli alberi, tre strade girano intorno all’isolato ma il rumore delle macchine che passano non disturba.
Il suo condominio, poi, si affaccia sulla via meno trafficata: lo avevano scelto per questo, lui e sua moglie, oltre che per la veduta emozionante.
Non era voluto andare a vivere in villa, anche se ne possedevano una fuori Roma. Lì, ci avevano passato molti fine settimana romantici e organizzato feste con gli amici. Gli piaceva la campagna, quel silenzio mattutino, la brina che si alza, i tramonti porpora, ma per il suo lavoro la città gli offriva spunti inesauribili di vita. Ci aveva costruito una carriera sui personaggi delle sue storie, così veri, così empatici. Il pubblico li amava. E non erano altro che i condomini, i vicini di casa, il norcino fuori la stazione, i romani di Garbatella, così autentici e affabili, così veraci.
Fuma la pipa disinvolto e la bolla di fumo sale grassa a inondare il soffitto: ci perde i pensieri in quella coltre tossica, ci vede perfino alcuni momenti della sua vita.
La cameriera, Rafina -che è con lui da tanti anni- appena entra in casa sbuffa e sbacchetta le mani davanti a sé.
“Signor Timo, il medico ha detto niente fumo” va verso di lui facendosi autoritaria.
“Giusto un sorso” le risponde canzonandola.
Lei spolvera i libri con disinvoltura, lo fa da tanti anni, sa cosa può toccare e cosa no, come rimetterli in ordine. Il salotto ha due librerie a parete, ma anche le sedie e gli sgabelli, la scrivania, trasudano di tomi.
Quando tocca le foto della signora Aurora, poi, lo fa sempre senza fare rumore, con garbo e rispetto. Lui guarda Rafina sollevare le cornici e riporle, e quel gesto gli fa immaginare sua moglie ancora viva.
Timo si appresta a riprendere in mano la penna ma gli sembra così pesante. Fa nuovi scarabocchi e niente altro. Si alza, va su e giù per la stanza, solleva un libro, legge qualche verso ad alta voce, poi, ah, via, non sente il peso delle parole. Gli è diventato tutto così farraginoso.
Tutto così estraneo.
“Niente Signor Timo, oggi?”
“Niente, Rafina”
“Vedrà, domani andrà meglio. Ne sono certa. Come le diceva sempre sua moglie? Non bisogna mai disperare… Se lo ricorda?”
“Sì, ricordo…” un velo di tenerezza gli scende nelle pupille acquose, poi però quel barlume di speranza si affievolisce “… io non dispererei, ma mio figlio mi vuole già abbrutito dalla demenza. Ha sentito, no, Rafina, mi vuole accollare una badante… e che ci faccio con una badante? Mica mi piscio addosso… non ancora!”
Rafina con estrema cura poggia vicino all’agenda una tazzina di caffè amaro.
“Come piace a voi” si sistema la gonna, e quando le pieghe assumono una geometria quasi perfetta gli dice: “… e allora faccia capire a Carletto che siete autosufficiente. Mi sembra un buon proposito per iniziare questo anno, non è così?”.
Lui però si affloscia di nuovo sulla sedia, stringe i braccioli come se dovesse decollare e poi solleva con uno spintone grottesco l’agenda, facendola cadere in terra.
“Che se ne stia lì, non la toccare, Rafina, tanto è vuota di pensieri”.
E dire che le sue agende sono passate alla storia per essere oggetti d’antiquariato, quasi. Nessuno poteva toccarle o maltrattarle, nessuno, nemmeno lui. C’erano i pensieri dentro, avevano un valore che non si poteva comprare col denaro.
Ma adesso quei pensieri non sembrano essere più così importanti, non sente muovere quell’universo di parole che un tempo gli tormentavano lo stomaco e che con urgenza volevano uscire, esibirsi, volare alte.
Quello sì che era stato un bel momento. Con le parole aveva costruito fiumi, arato terre, intrapreso viaggi psicologici, mietuto successi. E sua moglie, Aurora Koch, era stata al suo fianco, ne era stata l’ispiratrice, la promotrice, l’appassionata lettrice.
Improvvisamente, dopo la sua morte, aveva compreso di aver scritto solo per lei e non per sé stesso, non per i lettori, non per la critica. Così, tutto era cambiato.
Poi il suo agente gli aveva chiesto di riprendere le fila del lavoro ripartendo da un’autobiografia.
“Vedrai, scrivendo della tua vita ti sarà più facile” gli aveva detto.
E se dalle prime battute era stato così, poi a mano a mano il suo interesse era scemato e, di conseguenza, anche le parole non si erano fatte trovare.
Oggi gli pare proprio la giornata fotocopia di tante altre. Se ne sta appassito a guardare i fogli vuoti, poi gli scarabocchi.
Aveva scritto al suo agente che non voleva continuare. Che non ce l’avrebbe fatta a mettere in ordine quell’ammasso di ricordi. Essere cosciente di questo fatto lo rende nervoso. Tanto valeva non averceli i ricordi.
Beve caffè, fuma, non ha più colori intorno a sé. Solo quel tappeto di foglie rosse lo fa incantare e lo riconduce alla sua giovinezza, a quando le raccoglieva per fare dei lavoretti in classe. Che pensiero remoto.
Ricorda improvvisamente la sua maestra, quella era stata la sua prima ammiratrice. Gli aveva detto, senza riserve, che sarebbe diventato famoso. D’altronde la riempiva di poesie, gliele recitava, che altro avrebbe potuto dirgli.
Era bella la sua maestra, chissà cosa ne era stato di lei negli anni.
Si alza e indossa il soprabito.
“Dove andate, signor Timo?” Rafina sembra perplessa.
“Faccio due passi, si può?” storce il naso e si chiude la porta alle spalle.
Rafina cerca il numero di Carlo sulla rubrica e lo chiama.
“Uscito?” sembra attonito, poi le risponde di non preoccuparsi e di andare via quando avrà finito “chiamerò io papà, ora sono fuori Roma altrimenti sarei venuto”.
La risposta gli sembra incompleta, quindi aggiunge “Chiamo Marika, lei sa sempre come prenderlo, grazie Rafina, grazie mille”.
“Lo faccia subito, sa, sono un po’ preoccupata, ha lasciato la sua agenda in terra, capisce?” guarda sotto la scrivania e le sembra di essere al servizio di un uomo che non è più lui.
Carlo la rassicura, così, appena terminate tutte le pulizie, chiude la porta e esce.
_Francesco Pallini_
Francesco Pallini entra da un cancelletto pedonale nel complesso residenziale, cerca di orientarsi, poi non capendo bene come trovare la palazzina, chiede a un passante. Segue le indicazioni dell’uomo, percorre i vialetti lastricati di foglie rosse e finalmente dopo alcuni tentativi arriva davanti alla palazzina H.
L’edificio è color crema, un po’ come tutti gli altri ma sembra ritinteggiato da poco.
Una bella signora dall’aspetto gioviale si affaccia dalla finestra del primo piano e scuote una tovaglia, lasciando cadere sul prato dell’aiuola pezzetti di cibo. Un gatto nero e uno bianco accorrono veloci e ripuliscono grati. Lo guarda curiosa, gli fa un bel sorriso e rientra.
Lui allora si avvicina al citofono, scorre i nomi velocemente fino a che non trova “T. Speziani – A. Koch”, fa un grosso respiro e pigia sul bottone. Questo rimanda un crrr prolungato ma nessuna voce gli risponde. Pigia di nuovo e più lungamente. Poi nota che il portoncino è accostato, dunque decide di salire.
La signora che si era affacciata dalla finestra si palesa all’istante sul pianerottolo.
“Lei è…?”
“Ah, mi scusi, cerco lo scrittore, il signor Speziani, mi sa dire….”
“Ah… sì, lo scrittore. È su al 9… ah, ma va senza appuntamento?”
“No, no, ce l’ho, grazie. Alle 14 in punto” guarda l’ora come per sincerarsi che lo siano “Mi sa dire se per caso è uscito? Perché, non risponde”
“Mh, non credo, non esce più da quando sua moglie è morta… poveretto! Magari è un po’ sordo, sa, non l’avrà sentito il citofono!” la donna strofina il numero 1 affisso sulla sua porta, tanto per fare qualcosa, poi dice “Erano una cosa sola, lui e la moglie, e anche i giornali dicono che la morte della signora Aurora ha fermato la penna dello scrittore. L’ha letto?”
Francesco Pallini le dice di no, poi si scusa, non vuole fare tardi all’appuntamento. Sale le scale con una leggera agitazione. Ha una tracolla in spalla che gli fa assumere una postura sbilenca. Suda.
È la sua prima vera intervista a una personalità. Gliel’avevano affidata all’ultimo momento perché il giornalista che avrebbe dovuto farla si era preso una brutta influenza.
“Pallini” gli aveva detto il caporedattore “non possiamo rimandare, lo Speziani sta passando un periodo complicato, se non lo intervistiamo adesso non lo intervistiamo più. La farà lei l’intervista… contento? È per domenica prossima… eh sì, domenica, domenica, lo so, però lui non poteva in altra data. Anzi che ci riceve! Lo sa che non concede interviste da sei anni?”.
In quella settimana erano fioccate le raccomandazioni sul come gestire l’approccio con lo scrittore, come evitare di urtarlo o fare domande inappropriate, cosa domandargli, e così via. E, ovviamente, tutta quella pressione gli aveva messo addosso una tremenda ansia.
Aveva dovuto riporre tutte le sue domande nel cassetto e inserire quelle formulate dall’altro giornalista e dal suo caporedattore.
Sulle porte, i numeri sono molto eleganti e bronzati, come quello della signora al piano terra, che però doveva lucidarlo spesso perché luccica d’oro. Li conta mano-mano che sale, ma a un certo punto si ferma livido, come se qualcosa l’avesse turbato. Apre la tracolla cercando brutalmente al suo interno. Rovista furioso e avvampa in viso. Poi si ferma, il battito del cuore decelera. Estrae il cellulare.
“Dio mio, menomale!” senza quello non avrebbe potuto registrare l’intervista e per un attimo si era sentito mancare. Sta per riporlo nel taschino quando questo squilla. Si rimette la tracolla in spalla, guarda il display, sbuffa e risponde. Riprende a salire, goffo e irrisolto. Conversa con sua madre in uno scambio di sì e no veloce, lui vorrebbe tagliare corto ma lei, come sempre, lo trattiene nel momento meno opportuno. Si accorge, mentre sta per salire la terza rampa di scale, che ha appena passato l’appartamento 9. Butta un occhio su, come per accertarsi, ma la conversazione lo riassorbe.
“Non ne possiamo parlare quando torno? Ho da fare adesso, ciao” riattacca e presta tutta la sua attenzione al 9 in bronzo. Qualcosa non gli torna ma sua madre lo aveva distratto, non sa se ha dimenticato altro o se aveva pensato qualcosa e ora non ricorda cosa. Ah, sì, il cellulare. Ce l’ha. Si aggiusta i capelli, la tracolla, e suona il campanello. Si tampona il sudore dalla fronte.
Aspetta qualche minuto, ma niente. Allora suona di nuovo. Si guarda intorno, fa due passi indietro, poi poggia le dita sulla maniglia e la porta, sotto un tocco lieve, si apre.
Resta impietrito.
Tossicchia piano, poi più forte e dice “Signor Speziani, è permesso? Signore? La porta è aperta… posso?”.
Qualcosa gli dice di non entrare, qualcos’altro gli rende i passi pesanti. Ma entra lo stesso. In giro c’è poca roba, alcuni vestiti buttati così sul divano, degli scatoloni impilati uno sopra l’altro.
“Signor Speziani?”
Si sente un ladro, ma vedendo il disordine sul pavimento, sente anche che potrebbe essere successo qualcosa allo scrittore, quindi si intrufola nella prima stanza che dà sul corridoio: è un bagno, ma è vuoto. Allora esce e entra in quella dopo, è uno studio. Ci sono alcuni fogli sparsi, odore di incenso nell’aria, due tre libri dello scrittore sulla scrivania e, lì, di fianco, un foglietto.
Lo sfiora, si guarda intorno, lo vorrebbe aprire. Poi lo lascia dov’è. Infine lo apre, le dita che tremano.
Legge fievolmente “Non posso andare avanti, mi dispiace, ho fatto tutto quello che potevo ma devo farla finita. Non riesco più a scrivere e per me è come essere morto. Dillo tu a mio figlio” la firma T.V. che chiude il messaggio.
“Dio Santo” dice “T.V. – Timo Speziani… non riesce più a…. morto! Dio mio!”
La tracolla gli cade in terra e, lì, su due piedi non sa cosa fare, che direzione prendere, poi corre in ogni stanza. La camera è vuota. Il secondo bagno anche. In cucina c’è un gatto che, appena lo vede, si infila nella fessura della finestra e si dilegua. Il giornalista si affaccia col viso stravolto dall’ansia da quella stessa finestra sperando di non trovare un corpo riverso sull’asfalto. Per fortuna no. Tira un grosso respiro di sollievo.
È andato lì solo per fargli un’intervista e ora l’intervistato potrebbe essere… morto? Ma non lì, lì non c’è traccia di lui. Ora, che fare? Avvisare qualcuno? Ma chi? Chi?
Si guarda intorno col cuore in fibrillazione. Poi chiama la redazione, gli riferisce l’accaduto. Suda. Si asciuga il sudore. Suda di nuovo.
“Temo abbia fatto qualcosa di… di…” informa il caporedattore dei suoi timori, ha il cuore in gola non riesce a finire nessuna frase.
“Non ti muovere, facciamo meno scalpore possibile, siamo i primi a saperlo, capito che intendo? Chiamo io i carabinieri, tu aspettali lì, d’accordo Pallini?” il caporedattore non riaggancia fino a che lui non gli assicura che ha capito e che rimarrà lì.
Si siede in quel silenzio di pareti austere. Prende l’ultimo libro dell’autore, lo sfoglia, si sente perso. Gli era così piaciuto quando lo aveva letto. Per prepararsi a quell’intervista aveva passato le notti su tutti i suoi libri. E lo aveva sentito presente in ogni frase, in ogni divagazione poetica. Ora invece che è nella casa dell’autore gli sembra che quelle pareti, in assenza del suo proprietario, si animino di fantasmi. Escono fuori dalle altre stanze e girano in tondo, diabolici, ridendo, inveendo contro di lui, manifestandosi prima pietosi e poi crudeli.
Passa forse mezz’ora da che è fermo in quello stato catatonico. Non osa fare un passo o un gesto. Poi sente l’eco di più voci, passi simultanei, trova il coraggio di arrivare alla porta d’ingresso e aprirla, vede i carabinieri salire, li chiama.
“Qui”.
Quelli entrano come se ci fosse un morto ma in realtà non c’è.
Lo guardano allora, gli riversano addosso troppe domande insieme. Lui solleva il foglio e glielo mostra.
Accidenti, dicono in coro.
“E dove può essersi recato per compiere il gesto estremo?” il comandante lo guarda con zelo.
“Io… non saprei, non lo conosco. Sono… sono il giornalista che doveva intervistarlo. Ho suonato ma non rispondeva, la porta era chiusa male, come l’ho spinta si è aperta e… e poi il messaggio” si siede stremato.
Il comandante chiede ai due appuntati di arrivare fino all’ingresso principale e reperire il numero dell’amministratore di condominio.
“Oppure alla signora del primo piano” esordisce lui sovrappensiero, poi prova a dire meglio “provate a chiedere a lei, mi è sembrata informata sulla vita di Speziani”.
Il comandante gli fa cenno di andare, poi si affretta a dire “Ah, non fate salire nessuno, non voglio ficcanaso in giro… soprattutto la stampa”. Nel dirlo, guarda il giornalista con una punta di gelida ironia.
Appena sono soli, quello, gli fa una domanda a bruciapelo: “Perché si è introdotto in casa dello Speziani? Nessuno le ha aperto, giusto?”.
“Io… io veramente mi sono solo preoccupato fosse successo qualcosa. Lo… lo scrittore è in un momento difficile, ha perso sua moglie l’anno scorso e… non si è più ripreso… volevo solo… ecco… ho letto tutto di lui, mi sembra così familiare, una persona che si è spesa tanto per gli altri e ora, invece, è così disperato… non so, sono entrato perché ho pensato…”
“Mh… va bene va bene, accerteremo dopo” quello non lo lascia finire.
Va avanti e indietro per la stanza col bigliettino tra le mani. Legge in un soffio la frase e poi si mette la mano sotto il mento, ripete a voce alta “Dillo tu a mio figlio… mhm… chi doveva dire al figlio di questo gesto…? Forse la domestica? O la moglie… o… lei?”.
“Ioooo?” il giornalista suda freddo e ha gli occhi sbarrati.
“No” fa quell’altro “troppo confidenziale, non vi conoscevate… ma allora chi? A chi ha lasciato questo biglietto? Certo molto strano…”.
Poi piomba il silenzio tra i due.
Nello stesso momento che una goccia di sudore gli riga la tempia il bip del cellulare del comandante lo fa trasalire.
“Bene, ecco il numero dell’amministratore, ora sentiamo…” si allontana un po’ e parla per diversi minuti con uno o, gli pare, più interlocutori.
Quando torna nello studio non lo informa di niente, anzi, gli dice che dovrà attendere di sotto.
“E, mi raccomando, non dia la notizia” è perentorio.
Quando esce, sconfortato dall’intera situazione, trova però un nugolo di persone all’ingresso della palazzina. Tutti già avevano saputo? Gli appuntati sono lì che cercano di quietare i curiosi, dare risposte, ma non sembrano avere tanta abilità. Se li vedesse il comandante li frusterebbe.
Tra le persone, anche la signora che gli aveva indicato il numero dell’abitazione.
“Ma che è successo allo scrittore?” quella si butta avanti appena lo vede scendere.
“Non saprei, non era in casa quando sono salito” si defila come può ma lei gli va dietro.
“E allora perché ci stanno i carabinieri?”
“Guardi, ne so quanto lei, scusi…” si mette in un angolo e chiama la redazione. Mentre è lì che digita il numero si sente tirare per la giacca, nel voltarsi si trova faccia a faccia col caporedattore e la troupe.
Suda. Pensa al comandante, alla raccomandazione che gli aveva fatto. Niente stampa. È certo che, quello, si sarebbe incazzato e lo avrebbe richiamato all’ordine per dirgliene quattro.
Risponde come un automa a qualche domanda del caporedattore ma, glielo ripete, non sa più di quello che gli aveva già accennato al telefono. È esausto, vorrebbe solo farsi una doccia e ricominciare la giornata daccapo.
Il cronista si piazza dove si vede bene il portone della palazzina e le persone accorse. Un paio di luci si accendono di colpo, l’aiuto cameraman le spara in faccia al cronista che, di conseguenza, si sbriga a ripassare le due, tre righe scritte. Tutto avviene ad una velocità disarmante: il cronista, dopo aver fatto uno spot della storia e aver lanciato un titolone acchiappa audience, lo tira a sé, quale testimone ufficiale della vicenda, e gli mette sotto il naso il microfono, incitandolo a rispondere alle domande. Le luci lo accecano. Le domande sono le stesse che gli aveva fatto poco prima il caporedattore.
Il cameraman, di fronte, riprende la sua faccia sudaticcia, la sua goffa ricostruzione dei fatti.
“Io… io non … Io sono entrato perché pensavo gli fosse successo qualcosa…” tenta di spiegarsi meglio ma le domande del cronista gli rimbombano nella testa.
Nulla gli è chiaro di ciò che sta avvenendo, di ciò che era avvenuto, e la luce dei riflettori gli annebbia ancora di più la mente.
SECONDA PARTE
_Il giorno di Timo_
La gente si accalca intorno all’ingresso e, dopo la messa in onda dell’intervista al giornalista Francesco Pallini, anche diverse altre emittenti televisive si piazzano fuori dalla palazzina, chiudendo il passaggio sul vialetto.
Tutte, recitano per il momento lo stesso slogan “Scomparso l’autore de’ L’ultimo Calzino Giallo, si teme il peggio…” e altri piccoli indizi riferiti dalle autorità.
Da lontano Timo Speziani avvisa qualcosa di insolito, poi aguzza lo sguardo e nota più gruppetti assiepati di persone fuori dalla palazzina dove abita. C’è un gran fermento e agitazione tra loro. Si solleva la falda del cappello per vedere meglio, poi se la ricaccia sopra gli occhi. Si avvicina scosso, le gambe quasi molli. Ha paura di chiedere, poi scorge una cronista, quello ha in mano due cartelline, degli appunti ciancicati e il microfono. Con l’altra mano sta al cellulare e chiede all’interlocutore se la notizia è certa. Evidentemente lo è perché appena termina la conversazione richiama all’appello il cameraman.
“Su che andiamo in onda… svelti, svelti!”
Timo le si avvicina, le chiede ingenuamente “Scusi, mi scusi, cosa succede, state girando un film?”.
“Mh? Un film? No, guardi, ora devo andare in diretta, non è il momento…”
Timo si scosta con le mani alzate, fa per allontanarsi ma viene travolto dal cameraman e dal suo seguito. Questi, uno dopo l’altro e senza nemmeno chiedere scusa, lo urtano e proseguono indemoniati dietro alla cronista. Quella sembra una mattatrice e i poveri diavoli, dietro, gli animali da scarnificare.
Allora si mette in un angolino e guarda di sottecchi quelli che gli stanno davanti, sbircia, ma non capisce che cosa sia avvenuto. Vorrebbe passare e raggiungere l’ingresso ma una ragazzotta, che mastica un chewing-gum in modo animalesco, gli dice che non può “i carabinieri bloccano tutti, sa, lo scrittore si è suicidato”.
“Lo scrittore? Chi scrittore si è …”
“Quello famoso, abitava qui… lo Speziani” la ragazzotta passa le cartelline al cronista poi fa un palloncino che le si appiccica sulle labbra.
“Lo Spez…” Timo lascia cadere il suo cognome come se fosse quello di un altro. Si guarda intorno, una strana sensazione gli sale agli occhi e appare sulle labbra sotto forma di mesto sorriso. Si calca meglio la falda del cappello, alza anche il collo del soprabito, e volta le spalle a quel gran bazar.
Ripercorre a passi lenti il vialetto, i talloni sollevati come se qualcuno potesse sentirlo andare via.
Raggiunge l’area parcheggio della zona residenziale, lì le radici dei pini hanno sollevato l’asfalto rendendo inutilizzabili alcuni posti auto. La sua si trova proprio in uno di quei posti. È rimasta lì dal giorno che l’aveva guidata l’ultima volta. Erano andati dal medico con sua moglie e quello senza alcuna grazia le aveva sbattuto in faccia un cancro all’ultimo stadio. Così, senza ma e senza se.
Aurora si era spenta nemmeno dieci giorni dopo e lui, da allora, non aveva più voluto saperne di uscire, guidare, raggiungere il mare. Lo avevano fatto tante volte per fuggire da tutti.
Ma quell’abitudine, da solo, non aveva avuto più lo stesso sapore. Almeno, non fino a quel momento.
Si guarda intorno, ha paura che l’emozione birichina che sente possa essere fermata da qualche vicino pettegolo e impiccione.
Si nasconde nella Bianchina. C’è odore di muffa, ma anche di lei. Il profumo di sua moglie lo divora. Afferra il volante per stabilizzarsi e, quel contatto, lo fa tornare indietro nel tempo. Allora fa qualche finta manovra e, quasi, vorrebbe suonare il clacson, ma desiste. Guarda il sedile di fianco, la mano scende ad accarezzare il posto vuoto. Poi si ricorda di qualcosa. Tira giù il parasole e da lì sfila una fotografia in bianco e nero.
“Mettiamola qui” gli aveva detto Aurora durante il viaggio di nozze, e da allora era sempre rimasta custodita in quell’angolino.
Loro due che ballano. Gliel’aveva scattata un caro amico. Era un valzer, sì, bellissimo. Sente la musica tornargli viva nel cuore.
Accende la radio allora, si domanda se funzioni ancora. Ci sono canzoni nuove che non conosce, pezzetti di conversazioni tra conduttori, pubblicità. Infine trova una stazione che sta mandando i vecchi brani degli anni 60. C’è il pezzo di Bobby Solo, con quella lacrima aveva fatto commuovere il mondo, il caro Bobby. Chiude gli occhi e poi li riapre, resta fisso a guardare i pini che salgono verso il cielo.
Non ho mai capito
non sapevo che
che tu, che tu
tu mi amavi, ma, come me
non trovavi mai
il coraggio di dirlo, ma poi…”
Infila la chiave nel blocchetto e mette in moto, così tanto per sentirla ringhiare. Gli dà una strana meraviglia al petto il suono del motore. Non vuole guidare, solo stare seduto lì, che male c’è, si dice, vuole solo sentire quel rumore. Aurora non si offenderà.
Ma, chissà se facendo retromarcia riesce a disincastrarla dall’appuntita radice cresciuta lì sotto. Ci prova, adagio, fa una e poi due volte l’altalena, fino a quando la sente scivolare indietro. Il parabrezza urta la radice, un rumore bruttissimo si allarga davanti. Non gli importa, non scende nemmeno a vedere se ha rotto tutto. Vuole solo trovare un altro parcheggio dove lasciarla. Inizia a girare nel parcheggio, i posti vuoti ci sono ma gira ancora, giusto un paio di volte, si dice, per capire se funziona.
Alla radio passano un pezzo che ascoltavano sempre insieme. Aurora diceva che le metteva il buonumore.
Ogni volta, ogni volta che torno
non vorrei, non vorrei più partir
pagherei tutto l’oro del mondo
se potessi restarmene qui!
Ho negli occhi il color del tuo mare
ho nel cuore l’azzurro del ciel
ogni volta che devo partire
io mi porto il ricordo di te…”
Vede improvvisamente il telecomando del cancello, fa un terzo giro, un quarto. Alla fine punta il telecomando e, appena le ante sono aperte, imbocca la strada principale e risale verso l’edificio della regione Lazio.
Dove sta andando? Perché non torna indietro e dice a quelle persone che lui è vivo e vegeto?
Dovrebbe farlo, anche perché è curioso di sapere per quale motivo lo credono morto. E come potevano essere arrivati a pensarlo suicida? Forse per il suo atteggiamento degli ultimi tempi, sì, certo, ci poteva stare, ma, non può essere solo quello. No. Aveva iniziato la sua carriera scrivendo gialli, dunque lo sa, come nella finzione anche nella vita reale qualche fatto strano doveva essere pur capitato per sollevare tanto caos.
E suo figlio? Non pensa a suo figlio? Tra l’altro è fuori città, chissà che spavento se lo hanno chiamato.
Alza la radio e guida incurante di tutti. Gli sembra di non averla abbandonata mai la Bianchina. Fischietta appresso a Paul Anka.
La mia casa è laggiù
ma il mio sole sta qui
tu sei il sole per me, e non vorrei
lo sai, lasciarti mai perché…
Ogni volta che devo lasciarti
sento tanta tristezza nel cuor
e mi resta soltanto la gioia
di pensare che un dì tornerò….”
Le macchine, i semafori, i pedoni, l’aria frizzante che fa appannare i vetri, i palazzi che sfilano dal finestrino, e poi i negozi, le conversazioni sui marciapiedi, tutto gli sembra così nuovo. Così emozionante.
Un bimbetto lo saluta mentre attraversa la strada, la madre lo sgrida, lievemente isterica.
Lui ricambia quel saluto fresco e riparte, si dirige verso la Piramide Cestia. Guida felice, poi una volta arrivato a destinazione si fa serio, cerca parcheggio e paga il ticket.
Trova un fioraio, poco lontano, acquista un vasetto di ciclamini e un mazzo di calle gialle, ranuncoli, dei tulipani bianchi e del verde per renderlo perfetto. Il Cimitero Acattolico è diverso dagli altri cimiteri, chi entra viene investito dagli spiriti artistici, si sente sollevato.
Lui, da che l’avevano seppellita, non era mai andato a trovarla.
Aurora era una delle donne più belle che avesse mai visto nella sua vita. Il primo giorno che si erano incontrati lui ne era rimasto travolto. L’energia dei suoi occhi, quello stare davanti a lui con le spalle alte, le sopracciglia fiere, gliel’avevano fatta amare subito.
Quando le aveva detto “io scrivo, per vivere, e lei?”, Aurora gli aveva risposto con un accento nordico “io voglio sposarla, se è uno scrittore famoso io non dovrò fare nulla, solo la moglie”. Poi aveva riempito l’aria della sua risata contagiosa.
Quella risposta audace lo aveva fatto inginocchiare davanti alle sue mani solo dopo tre mesi di frequentazione. Tre mesi bellissimi, lui non si era mai sentito così, e non si era mai sentito sazio di lei, della sua compagnia, dei suoi scherzi, delle sue risate.
Gli era sembrato di non aver vissuto prima di quell’amore.
Aurora era di padre tedesco e madre italiana. Lui, glielo disse subito, non avrebbe mai imparato il tedesco, e, d’altronde, perché avrebbe dovuto, con una lingua poetica come l’italiano?
Lei senza batter ciglio aveva risposto: “non te lo chiederei mai, sarebbe oltraggioso”.
Solo una parola entrò a far parte del suo lessico quotidiano, schatzi, cioè tesoro. Le aveva dato quel nomignolo il giorno che lei l’aveva pronunciato per fare le coccole a un gattino.
Comunque, nonostante l’impertinenza con cui gli si era proposta, gli era stato difficile conquistarla. Aurora amava l’arte, lei stessa era un’artista. Una scultrice affermata. Lui aveva capito che avrebbe dovuto essere galante ma che avrebbe dovuto tirare fuori anche la sua mascolinità e, soprattutto, tutta la sua pazienza.
Non aveva mai smesso di far girare il mondo intorno a lei, nemmeno per un giorno. Nemmeno l’ultimo giorno.
Poco prima che chiudesse gli occhi per sempre, infatti, aveva poggiato sul suo cuscino una rosa, le aveva detto: “solo per farti sentire il profumo che ti aspetta fuori, quando ti rimetterai”.
La tomba è piena di polvere, dal vasetto dei fiori spunta il rimasuglio di qualche gambo secco. Nota come sia la tomba più triste. Le altre sono curatissime, deliziate dai fiori, ingentilite da decori e statue. Non è la tomba adatta a una scultrice.
Si toglie il soprabito, cerca una scopa, tira fuori dalla tasca qualche fazzolettino e pulisce tutto. Getta via i rami secchi, li sostituisce con il mazzo che aveva preso, degno di una regina. Le sarebbero piaciuti, si dice. Aveva sempre amato i fiori Aurora. In campagna era riuscita a far rinascere un vecchio giardino incolto e a lui aveva delegato la parte più pratica: reperirle il necessario per la sua grande opera di bonifica. Erano sempre stati così complici, e in ogni circostanza. Quel legame stretto e reciproco gli manca più dell’aria.
Si siede lì, di fianco alla lapide, sul tronco di un albero reciso su cui poggia un fazzolettino per evitare di sporcarsi.
“Sei arrabbiata con me, schatzy, lo so… Lo sono anche io con me stesso. Non sono venuto qui nemmeno una volta” si toglie il cappello e lo ripone su un piccolo cespuglio “… ma, una volta qui, non c’è più via di scampo, bisogna che uno accetti che l’altra non c’è più davvero. Tu che avresti fatto se fossi mancato io?”
Si guarda intorno, non c’è nessuno, può proseguire.
“Mi hanno chiesto di scrivere la mia autobiografia, forse pensano che morirò, anzi, pensano già che io mi sia suicidato” sorride divertito.
“Carlo pensa che un giorno o l’altro perderò il lume… può darsi succederà presto… ma intanto, però, dovrei scrivere. Ma io non so più scrivere, eri tu a scrivermi i pensieri in testa, mi correggevi gli errori…” si rimette il soprabito. Ora che è fermo, il freddo gli entra nelle ossa.
“Tutta l’Italia a quest’ora saprà che sono morto suicida… ah, non ti sembra la trama dell’Ultimo Calzino Giallo? Ecco, sì, sono proprio come il mio personaggio, Famfà, i miei calzini sono sparsi ovunque oggi. Molti mi staranno già cremando, chissà chi avranno intervistato, quali amici si saranno fatti avanti per dire che erano miei amici. Ah! La verità è che vorrei essere morto al posto tuo per darti la possibilità di vivere la tua vita e non la mia… che avresti fatto senza di me? Me lo sono chiesto tante volte… sei stata felice con questo testone?”.
Prende il cappello se lo gira tra le mani, assorto in un pensiero che sembra frastornarlo, guarda la foto nel tondo e ripensa al libro che dovrebbe scrivere “… potrei intitolare la mia autobiografia l’Innocente Scalzo, oggi mi sento così: innocente, perché non mi sono suicidato, e scalzo perché li ho visti e sono fuggito… non ho lasciato le mie orme in giro, sono stato più furbo di Famfà”.
Si alza e cammina lì intorno, si rimette il cappello, poi se lo toglie con sconcerto: lì davanti c’è la tomba di Gramsci. Fa un inchino poi dice: “Ah, hai capito? Te lo sei scelto bene il posto davanti a mia moglie!”. Sorride e si rimette il cappello.
Riporta la scopa e il raccoglitore dove li aveva presi, quindi torna alla tomba di Aurora. La foto che aveva scelto Carlo non le rende giustizia.
“Nostro figlio ha ripreso da me, purtroppo, non sappiamo fare nulla senza di te. Però sta bene, Marika lo rende più sereno, ma tanto che te lo dico a fare, tu lo sapevi già. Ti ricordi cosa mi dicesti? Questa ragazza è la donna giusta. E non sbagliavi … ma tu non sbagliavi mai… mai, amica mia, donna mia, madre mia”.
Si acciglia pensando che deve fare ritorno alla vita reale.
“Quasi quasi questa fuga mi è piaciuta, resto qui un altro po’, che dici? E, potrebbe essere il finale giusto per la mia autobiografia, vero? Mi ispirerai qualche pagina?” si volta come per andarsene poi torna sui suoi passi “Amore della mia vita, mi manchi”.
Tocca il tondo della foto e ci poggia un bacio tremante.
Sono passate le 11.30 quando esce dal cimitero. Attraversa Testaccio a piedi, il sole fa appena capolino tra le nuvole tronfie, passa Ponte Sublicio e raggiunge Porta Portese. Per un’oretta si perde tra i banchi, i personaggi di strada, gli oggetti antichi che lo riportano a un’altra epoca. Poi ripensa improvvisamente alla sua agenda caduta in terra. Si pente di averla lasciata sul pavimento, quasi sente l’urgenza di correre a casa e raccoglierla, ridarle il suo dignitoso posto sulla scrivania. Ma poi si perde di nuovo tra i banchi, ha fame, mangia, scova qualche bel libro usato, poi viene attratto da uno scatolone su cui c’è scritto “si regalano cuccioli”.
Lui e Aurora non avevano mai avuto un cane, troppo impegnati a rincorrere il tempo.
“Rimane piccolo, non è di razza, niente pedigree ma è amorevole” sta dicendo una signorina mentre solleva l’ultimo cucciolo rimasto.
“È svezzato?” le chiede senza sapere perché lo stia facendo.
“Sì, sì, sono i cuccioli della mia Dolly! Svezzato e con anche la prima vaccinazione” la signorina glielo pianta in braccio.
Il cucciolo è di burro e lo guarda con grandi occhi color miele.
“È bellino” si sorprende a dire poi lo accarezza, lo culla. Il cucciolo gli prende il dito e lo ciuccia.
A questa dimostrazione d’affetto Timo Speziani non resiste, dice alla signorina “Lo prenderei se per lei va bene”.
Quella è felicissima, gli regala un collarino con una medaglietta a cuore “ci può far incidere il suo numero di telefono, non si sa mai e, mi raccomando, microchip! Ecco il mio numero per qualsiasi cosa, se mi lascia il suo le faccio un colpo di telefono per sapere come sta andando”.
Le scrive il numero di cellulare su un’agendina che la signorina gli porge. Dopo pochi minuti se ne va con il cagnolino in braccio che sonnecchia tranquillo. Il rumore della città sembra non disturbare il suo sonno e nemmeno questo nuovo padrone.
Va un po’ in giro fino a che non entra in un negozio per animali e gli compra di tutto, si fa consigliare dalla commessa e impazzisce dietro a guinzagli, cuscini, scatolette, croccantini, giochini, biscotti.
EPILOGO
_L’incontro tra Timo e Francesco_
In macchina il cucciolo lo scruta e piagnucola.
“Dovrò trovarti un nome… che nome ti piace?” lo accarezza e guida con una felicità addosso mai provata. Diversa.
Al suo rientro parcheggia la Bianchina in un posto auto dove le radici non ci sono.
Il passo, ora che è sul vialetto si fa più lento, in qualche modo vorrebbe allontanare l’epilogo della giornata, ma il lamento del cagnolino lo fa desistere.
“Hai fame, brigante?”
Sono quasi le 18. Una luce Vangoghiana intorno. Davanti alla palazzina H, per sua fortuna, lo stuolo di cronisti non c’è più. Qualcuno doveva aver risolto il garbuglio o forse l’attenzione si era spostata altrove. La sua villa fuori città?
Poi lo vede, c’è un uomo. Se ne sta affranto sul muretto d’ingresso. Gli passa di fianco e, per cortesia, si solleva il cappello e lo saluta.
Quello gli fa un lieve gesto ma il viso gli ricade giù affranto, poi subito dopo lo vede soprassalire. Si punta in piedi come se un istrice gli avesse conficcato nel sedere tutti i suoi aculei.
“Si… si… Signor Speziani!” strabuzza gli occhi, li batte due tre volte per schiarirsi la vista.
“Sono io, giovanotto… mi hai beccato!” si rimette il cappello.
“Io… io volevo solo… volevo solo… pensavo le fosse accaduto qualcosa… sono entrato senza permesso e… e… lei non mi perdonerà mai e… e io ho perso il lavoro… un disastro signore!” cade seduto, le braccia lunghe, penzoloni. Poi però si rialza e dice: “Sono felice che lei stia bene”. Si risiede.
“Ahhhh! Sicché hai messo in moto tu, tutta la macchina… e… dimmi, ma perché hai pensato che mi fossi suicidato?” avrebbe voglia di ridere ma il volto sconvolto del ragazzo lo fa rinunciare, non sarebbe cortese.
“C’era un biglietto… pareva proprio che lei… insomma… io lo so cosa si prova a perdere una donna che si ama, lo so… e anche io tempo fa mi sarei voluto ammazzare… Io… io signor Speziani sono rimasto per chiederle scusa!” si rimette a posto la giacca, soppesa una tracolla e poi allunga una mano perché lui gliela stringa.
Timo resta perplesso “Un biglietto, dici? Che biglietto?” poi, come se questa ora non fosse la priorità, va verso di lui, lo prende per le spalle, è un ragazzo esilino, e se lo stringe addosso. Il cucciolo emette un gridolino, schiacciato lì in mezzo, poi infila la testa sotto il braccio di Timo.
“Ah! Dimenticavo, ho preso un cane, ti piace?” glielo mostra fiero poi dice divertito “io ti devo solo ringraziare, caro ragazzo… ma quali scuse!!! Come ti chiami?”
“Francesco, signore …. Pallini” resta intirizzito in quella stretta possente.
“Francesco Pallini grazie infinite, mi hai regalato un giorno pazzesco. Sono andato perfino a comprarmi un gelato al pistacchio. A mia moglie piaceva da matti il pistacchio” soddisfatto si accarezza il mento.
Poi imbarazzato chiede: “E, sai mica se mio figlio è su?”
“Ah, suo figlio, credo di sì. Passando qui, proprio davanti a me, ha detto a tutti che lei non era andato a…. a…” non riesce a dirlo.
“E come lo sapeva? Apperò!” si tocca di nuovo il mento ma stavolta con velata curiosità.
“… e, ascolta Francesco, che dicevo in questo biglietto?”
Il ragazzo si guarda la punta delle scarpe. Tituba un po’, poi gli dice: “Che voleva farla finita ma non era suo l’appartamento in cui sono entrato… capisce? Pensavo lo fosse… perché il 9 era quello, ma invece no, era l’appartamento di Fardotti, l’editor che sta seguendo la sua autobiografia. Però quelle iniziali T. V. erano le sue, giusto? Ha capito che impiccio? Io salivo le scale stressato da mia madre… e fino a quel momento avevo contato i numeri sulle porte, ma poi no. Poi il 9. Improvvisamente. Capisce?”
“Ahahhahha, caro ragazzo, no, non ho capito nulla, siediti, riprendi fiato!” gli si siede di fianco e aspetta che quello lo illumini.
“L’appartamento dove sono entrato era il 6. Il chiodino era saltato qualche giorno prima, così ha detto Fardotti rientrando. Che non se ne era preoccupato perché stava traslocando. Io che ne potevo sapere che il chiodino era saltato, io dovevo solo intervistarla. Un disastro, un vero disastro” sprofonda la testa nelle mani, disperato.
“Ah, sì, Fardotti! Ma pensa! Ci abbiamo scherzato su proprio ieri su quel numero capovolto, ah, va bene va bene, ora non ti deprimere” poi come colto da una parola che il ragazzo aveva pronunciata, gli chiede: “Hai detto che dovevi intervistarmi? Oh, santo cielo, certo, quel Pallini lì sei! Sì, era sull’agenda il tuo nome, ma l’ho scagliata per terra stamattina l’agenda, mi stava facendo impazzire, e… be’ non ti preoccupare, la faremo domani l’intervista”.
Si alza. Guarda le scale con preoccupazione. Suo figlio Carlo sarà su tutte le furie.
“Io non la posso intervistare più, mi hanno licenziato” l’amarezza con cui pronuncia la parola licenziato fa breccia nel cuore di Timo.
“Ah, già, lo avevi detto prima. Non ti scoraggiare -mai deprimersi- lo diceva sempre mia moglie, e lei era una tosta. Sai, dalle situazioni negative viene sempre fuori qualcosa di positivo, basta fidarsi. Tu domani vieni su, ti concedo molto più di un’intervista. Sai scrivere, sì? O sei un giornalista analfabeta?” si sfrega le mani, comincia a sentire freddo.
Il ragazzo ha gli occhi fissi su di lui, è incredulo, dice solo “scrivo bene”.
“Scrivere bene non basta, hai le palle per dire la tua?”
“Sssì… sì signor Speziani, quando scrivo sono meno imbranato, mi piace scrivere”.
“Domani alle quindici e… mi raccomando…” indica in alto verso l’ultimo piano “al 9 giusto, stavolta!”.
Entra e lo saluta allegro. Il ragazzo resta lì meno sconfortato di prima ma incerto sul da farsi. Probabilmente non crede nei sogni che si realizzano. Ma gli farà cambiare idea.
Timo inizia a salire nervoso. L’assenza di un ascensore gli comincia a pesare ma non vuole lasciare la “loro” casa, ci sono tanti bei ricordi tra quelle mura.
Passa davanti a quel “9” cialtrone della porta di Fardotti, gli viene così da ridere. Tocca il numero bronzato facendolo dondolare su sé stesso. Non resiste più, ride, ride, si regge lo stomaco dal dolore di quella risata liberatoria. Uh, quel ragazzo, che enorme caos aveva creato, chissà quante emittenti erano saltate in aria quel giorno, quante carriere. Tutta quella storia ha dell’incredibile, ma è vera, e nemmeno la migliore delle penne l’avrebbe potuta scrivere. Nemmeno lui.
Il cucciolo alza le orecchie e inclina la testa su un lato, lo fissa sorpreso e curioso.
Allora lui lo informa sul perché stia ridendo.
“Non sai che è successo oggi… devi ringraziare quel ragazzo se sei con me adesso. Sei proprio buffo, che orecchie buffe hai, e questo musetto?” si guarda intorno e gli dice “…ma quanto è bello questo musetto, quanto è bello?”.
Il cucciolo gli ciuccia il dito di nuovo e lo lecca accoccolandosi.
L’ultima rampa e è davanti alla porta del suo appartamento. Si ricompone. Apre, facendo meno rumore possibile, ma appena dentro trasale.
Carlo applaude derisorio “Bene, il fuggitivo è tornato!”. La clap però si smoscia subito.
Marika gli va incontro e lo abbraccia, così i nipotini. Il pelosetto si ritrova in mezzo a grida di felicità e poi ad altre grida quando spuntano fuori le sue orecchie. Carlo lo fissa dalla finestra in fondo. I bambini impazziscono davanti a quel muso simpatico. Lo vogliono e il nonno passa in secondo piano.
“Dovete fare molto piano con lui perché è piccolino, ve lo affido, dategli questa scatoletta” estrae una confezione di umido e gliela porge. I bambini corrono in cucina presi da questo nuovo membro della famiglia. Hanno tante domande ma Timo dice che risponderà a tutto dopo.
Carlo è nervoso ma certamente la comparsa del padre ha disgelato il suo animo.
“Sei uscito stamattina… ti rendi conto?”
“Che ne potevo sapere che proprio oggi la stampa mi avrebbe spiattellato su tutte le trasmissioni televisive!” alza le spalle in segno di discolpa e sorride mentre ripone il cappello sull’appendiabiti.
“Sarete morti di paura, e tu? Sei dovuto tornare da … dov’è che eri andato oggi?”
“Da Napoli, papà. Sì, sono rientrato di corsa. Ma ti rendi conto? Non sai quello che abbiamo passato. I giornalisti ci hanno massacrati per averti lasciato solo. Perché non hai risposto a quel cazzo di cellulare?” si inalbera e sbatte l’agenda sul tavolo.
“Ah, il cellulare, e dove l’avrò messo…” si tasta le tasche, non ci aveva davvero pensato al cellulare.
“Vedi come fa?” Carlo si rivolge a Marika per accusarlo.
“Non l’ha fatto apposta, Carlo, vero Timo?” la ragazza è gentile e gli circonda affettuosamente le spalle, le braccia lunghe e snelle che gli ricordano vagamente quelle di Aurora.
La ragazza prosegue: “Carlo è stato in ansia tutto il giorno, ora però si calma, ci calmiamo tutti. E, comunque, appena abbiamo saputo che c’era stato un ridicolo scambio di appartamenti, ci siamo tranquillizzati. Poi, certo, Carlo ha visto che mancava la Bianchina…”.
C’è un po’ di silenzio, poi i bambini prendono in giro il nonno svampito. Dicono che il cagnolino ha mangiato tutto.
“Come si chiama, nonno?”
“Dobbiamo darglielo, voi che suggerite?”
E inizia così la lotteria del nome fino a quando il più grande dei due non dice “chiamiamolo Pepe!”.
I bambini ridacchiano vedendo il padre adirato col nonno, così, Carlo si rilassa, Marika segue festosa le risate dei piccoli, e Timo le va dietro ammettendo le sue colpe.
“Poveretto quel ragazzo, era giù. È rimasto sotto per scusarsi con me” non può che empatizzare con lui, ma gli viene anche da ridere.
“Quindi, è stato lui a raccontarti quello che è successo oggi?”
Timo allarga le braccia “Certo, chi altri?”. Evita di dirgli che aveva assistito a un pezzetto di quel baraccone quando stava rientrando a casa. Ecco, questo dettaglio non lo avrebbe aiutato in questo preciso momento.
“Non guidi da più di un anno, ma dove sei stato? Come ti è venuto in mente di prendere la Bianchina” sembra davvero curioso di sapere, ma anche adirato. Come se quella novità fosse qualcosa di davvero incredibile ma allo stesso modo un gesto incauto.
E, d’altronde, come dargli torto. Era rimasto chiuso in casa per tutto quel tempo!
“In giro” gli dice solo, poi va in cucina e mette su l’acqua per la pasta “Avete fame bambini? Io tantissima! AGGGH vi mangio!”
“Sììììì…. ahahaahhah”.
Quando lui e Carlo restano soli in cucina gli dice: “Ho trovato il titolo per la mia autobiografia, lo vuoi sentire?”
Carlo sembra sorpreso “Allora questa uscita ti ha fatto bene! Ci hai ripensato, la scriverai. Sono felice”.
Timo non se l’aspettava ma Carlo lo abbraccia, poi si ricompone subito “E… quale sarebbe il titolo?”
“L’innocente scalzo” lo dice con ritrovata leggiadria e un brillio di acqua negli occhi.
“E perché questo nome?”
“Lo scoprirai quando lo leggerai, e poi ho il benestare di tua madre” dice senza preamboli.
Carlo si volta verso di lui, come per indagare sulla sua salute mentale.
“E… non ho bisogno di una badante, prima che tu mi ripresenti il conto. Ho Rafina che viene ogni tanto, e poi ho trovato un ragazzo sconsolato che ha perso il lavoro e che mi aiuterà con l’autobiografia” si mette in bocca un pezzo di parmigiano “allora, che ne pensi?”
“Il ragazzo non sarà mica…”
Si guardano, poi sbottano a ridere. Ridono appoggiandosi uno all’altro per non sbandare.
“Ricordami…. Ahahah… ricordami di mettere un chiodino a quel 6 di Fardotti… ahahha…. ma perché Fardotti ha scritto una lettera d’addio? Ahahaha, si voleva suicidare?”
Non riescono a smettere di ridere.
“Ma no, è quel biglietto che gli avevi scritto tu, quello in cui dicevi di non poter continuare con l’autobiografia… che lo pregavi di dirmi che non la volevi fare”
Ricominciano a ridere forte.
EDITOR: PATRIZIA SPADARO
(che ringrazio sempre vivamente per la sua meticolosità, conoscenza, punto di vista)
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NON HO BISOGNO DELLE ALI
L’ASINO STELLATO
OPPURE UNA POESIA:
LA MASCHERINA
VALLE DEL SORBO