Ci avviciniamo circospetti al vuoto che ci muta
assolviamo la nostra anima dal terrore e
mentre circoliamo tra le mura
sentiamo abbattersi sulle spalle
una nuova consapevolezza.
I passi hanno le catene
e invece la mente spezza ogni distanza
garantisce al corpo la dimensione che merita
facendosi scudiera di questa emarginazione
rompendo l’ansia, con forza.
Troviamo la reazione nel disagio.
Troviamo quel magnifico esempio da condividere
e lo ripetiamo agli altri fuori dalla stanza.
Siamo tutti vincolati da un abbraccio
che se pure al momento è virtuale
è speso bene,
ci dà la sensazione di dare un calcio all’abbandono.
Viviamo sopraffatti dal silenzio,
che morde il giorno ma soprattutto la sera
e non è un suono vigliacco
che mischia il suo rumore seducente, alla noia.
Ci piace sentirlo intorno in questa disavventura,
rimbombarci dentro con il nostro respiro,
viverlo con rispetto.
Nonostante le finestre si facciano palcoscenico di messaggi
e le braccia siano diventate arcobaleni,
le città sono un’algebra di movimenti
e si sente il peso di chi ha perso le scarpe
quaggiù,
tra le vite infette.
Sembra non ci sia altro spazio, che il cielo,
per fuggire.
Siamo impoveriti senza gesti
le mani sono diventate nemici
corpi del reato,
che lottano per ritrovare un fiore da cogliere
una mano da stringere.
Mani che non sanno stare ferme,
e allora impastano come facevano le nonne
ritrovando nell’umiltà e nell’acqua
il germe del grano.
Dove saremo tra un mese,
dopo le fasi programmate?
Dove saremo tra dieci anni se non
domiamo l’inferno che abbiamo creato!
Se ne troverà l’arte, forse, e anche il tricolore
ma non l’umanità,
cancellata da un virus più grave:
la dimenticanza.
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VIAGGIO NELL’ITALIA DEL VIRUS E DELL’ARTE