Petra come “La Variopinta”, come città fantasma, come eredità dei Nabatei. Chi è Petra? Quali innumerevoli verità sono nascoste sotto gli strati cromati della sua terra?
La Città-Scultura
Petra non è un luogo ma tante sfumature di luogo, basti pensare alle civiltà che l’hanno abitata, consumata, resa unica.
E infatti è rossa ma è anche rosa, è gialla, e è anche bianca, un gioco di colori che dipende da una forma di ossidazione che, in qualche modo, ci fa pensare allo scorrere del tempo, delle vite, della storia.
Una vera e propria città-scultura modellata tra le montagne Sharah con una tecnica che prevedeva di far partire lo scavo, dall’alto verso il basso. Questo perché l’arenaria, pur essendo un materiale roccioso e forte, si sgretola facilmente data la consistenza sabbiosa e fragile.
E Petra è stata questo nel corso della sua lunga vita. Forte e fragile.
Duemila anni fa il popolo dei Nabatei costruì un’architettura destinata a diventare Patrimonio Unesco e, successivamente, anche una delle Sette Meraviglie del Mondo.
Ma c’è stato un periodo in cui Petra divenne una città fantasma, coperta dalla stessa sabbia da cui era emersa. Fu un esploratore svizzero, Johann Ludwig Burckhardt, a riscoprirla nel 1812: dobbiamo a lui la sua rinascita e il privilegio di poterla visitare.
Quando siamo arrivate all’ingresso della città, in sella ai cavalli, non mi aspettavo il Siq, questa strettissima e altissima spaccatura nella roccia. Scopro che era stato un letto fluviale e che, poi, per creare il passaggio, il fiume venne deviato.
Mi sono guardata intorno, il colore ambrato di ogni superficie mi faceva pensare al sole, non all’acqua. Mi dava l’idea di essere davanti alla scenografia di un Deserto che non a quella di un’Oasi.
Dove scorre l’acqua
Invece ho scoperto che Petra, se era stata scelta dai Nabatei -per fini commerciali- non era soltanto per la sua posizione strategica. E inizio a capire, proprio da questo ingresso, o antico letto fluviale, che i Nabatei erano come i nostri Ingegneri Etruschi, sapevano fronteggiare la scarsità di acqua con la costruzione di impianti di raccolta.
Fu proprio l’impermeabilità dell’arenaria a risolvere i loro problemi. Crearono una fitta rete di gallerie sotterranee ma anche tubi di terracotta, o di ceramica, esterni, per convogliare le acque piovane, le circa duecento cisterne, i vari bacini di raccolta e una fontana pubblica, verso l’Acquedotto.
Questa fu la chiave del potere di Petra: l’acqua, il saperla mantenere, suddividere, far fruttare.
Sentire il passato
Penetrare il Siq era come sentirsi formica, i passi piccoli la testa in alto a calibrare la fine di quel colosso. E poi di fronte comparve El Khasneh al Faroun, comunemente detto Il Tesoro, un altro singhiozzo nel fiato. Una composizione nella roccia, trionfale, un monumento alla bellezza.
Prese il nome de “Il Tesoro” perché per molto tempo imperversò la voce che l’urna cinerararia, posta al centro della facciata, contenesse l’oro nascosto dal re della Nabatea Aretas IV.
In realtà l’urna era solo un’urna, tuttavia l’ormai famoso nomignolo le restò incollato addosso.
Era facile immaginarsi le carovane, il commercio di sete e spezie, i profumi di incenso. L’atmosfera era quella di un luogo senza tempo, effimero, raffinato, misterioso.
Il mistero dei Nabatei
Uno dei misteri più grandi, visitandola, è che ci si chiede: ma dove vivevano i Nabatei? Perché i luoghi di sepoltura ci sono, i luoghi culturali anche, ma le case, dove si trovavano?
Tuttavia c’è un fatto, che forse ne spiega l’assenza, i Nabatei erano un popolo nomade. Avevano un grande rispetto per i morti, per la vita dopo la morte, quindi non avrebbero mai potuto concepire una città senza i luoghi di culto, sacri. Ma avrebbero potuto vivere tranquillamente, e per brevi periodi, nei fori scavati nella roccia, senza dover avere per forza un luogo caro in cui tornare.
L’acqua di Petra fonte di bellezza
Un altro posto in cui l’acqua torna come protagonista è il Castello della Figlia del Faraone (Qasr al-Bint al-Pharaun). Di fianco, infatti, sorgeva il Grande Tempio, e sotto sono state rinvenute delle condutture idriche che servivano per irrigare il giardino del complesso. Quindi non c’era una visione solo commerciale ma anche di grande attenzione al bello. Ancora una volta, di fronte a queste rocce, nonostante l’acqua potrebbe sembrare l’ultimo elemento, non ho faticato a immaginare una ricca vegetazione, le piante ornamentali rigogliose, una certa esoticità di fondo.
Era un bel contrasto con tutto quel giallo, marrone, crema e ocra degli ipogei.
Visioni dall’alto
Per vedere alcune delle cisterne a forma di campana bisogna raggiungere la prigione di Al-Habis, si cammina intorno-intorno alla montagnola e, dalla cima, si abbraccia il panorama sulla valle Umm al–Biyara, dove sono costruite.
Ecco, in questa zona c’è una casa nabatea, quella di Doroteo, che apparteneva a una famiglia benestante, anche se nel vederla si resta stupiti. Non era altro che una grande roccia con dei fori, comunicanti tra loro, in cui oggi vengono stallate le caprette. Ma non è detto che non fosse così anche al tempo dei Nabatei.
Sempre più in alto
Il posto che mi ha dato la sensazione che il cielo mi schiacciasse e la terra mormorasse qualcosa è stato Al Deir, il Monastero, che si raggiunge a piedi ma anche a dorso d’asino lungo una scalinata diroccata di circa ottocento gradini. Io e l’asino abbiamo fatto amicizia, gli stavo simpatica, abbiamo parlato un pò, mi piacciono i testoni.
In cima il cielo era imponente ma il Monastero lo era di più, si confrontavano e non saprei dire se qualcuno vinse. Posso solo augurare, a chiunque visiti questo luogo, di sentirsi come mi sono sentita io, avvolta dal silenzio, ma un silenzio pieno di voci che arrivavano da tutte le parti. Quel silenzio mi ha davvero toccata perché quelle voci parlavano all’anima.
E come poteva essere diversamente? Mi resi conto di essere tra la Valle di Mosè e la Valle del Giordano, insomma, in un crocevia biblico, uno di quei luoghi che si mitizzano perché sono la Bibbia, sono dove le gesta di Gesù, i miracoli, si mostrarono. E poi c’è subito dopo il Wadi Rum, la Valle della Luna, il deserto, dove quel campo minato di stelle è un Paradiso sospeso tra l’infinito e la nostra piccola presenza.
Tutti i colori di Petra
Petra è stata anche il cibo. I piatti colorati, tanti legumi diversi, una gioia per gli occhi. L’humus con la salsa piccante, i falafel, il riso. Tutto era delizioso. In una tenda nel Wadi Rum, un erede dei Nabatei ci ha preparato la tisana alla menta e, per servircela, ha sciacquato le tazzine dentro una bagnarola celeste con un po’ d’acqua fredda. Quelle cose che ti lasciano sorpresa e, per cui, senti comunque un profondo rispetto.
Mi è piaciuto tutto, anche indossare, per gioco, i cappottoni dei Nabatai, un vestiario dai filamenti pesanti e incartapecoriti che gli servivano per sopportare le notti fredde. E mi è piaciuta anche la lucertolina che mi è salita sul piede fuori dalla stessa tenda. Il deserto e il senso di libertà, la sensazione di trovarsi su Marte invece che sulla Terra.
D’altronde appena scese dall’aereo, sulla strada arzigogolata per Petra, ci successe subito un qualcosa che ci lasciò strabiliate. Ci fermammo in un negozietto e dopo esserci bevute le tisane speziate, il proprietario ci fece un cenno. Avremmo dovuto seguirlo. Salì, davanti a noi, fino in cima a una grande terrazza, allargò le mani verso l’orizzonte e lì, nemmeno avevamo iniziato il viaggio ci si spalancò davanti tutta la Valle del Giordano.
Il resto non avrebbe potuto essere da meno e infatti fu così.
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Sono prima di tutto una viaggiatrice, annuso la vita e ne trattengo le radici. Quindi scrivo per piacere ma anche per lavoro. Scrivo perché senza non saprei starci. E poi fotografo perché la fotocamera è il mio psicologo personale. Cammino sempre con un animale di fianco, un gatto un cane un cinghiale un ippopotamo. Insomma converso. E poi scrivo di nuovo.