Dakar nasce dal racconto di Patrizia che mi ha fatto assaporare attraverso alcune frasi la vita intima di questo luogo del cuore, che è uno straordinario dipinto
I primi colori di Dakar
Quando arrivai a Dakar non era la prima volta che mi trovavo di fronte a un paese tanto ricco quanto povero. Ho passato parte della mia vita in Somalia, il cui triste destino si percepiva negli sguardi dei suoi abitanti.
E ho visitato il Senegal, che pure di povertà ne ha tantissima ma è pervaso da un flusso magico, ostentato dai sorrisi pieni, il costume variopinto, la musica dei Koras, i passi che muovono la musica.
C’è una frase di Léopold Sédar Senghor, il poeta e padre politico del Senegal, ideologo del movimento che inneggiava alle peculiarità proprie dei neri, la Négritude, che provoca in me proprio questo ricordo visivo, e dice:
Noi siamo gli uomini della danza, i cui piedi riprendono vigore colpendo il suolo duro”
Dakar è stato tutto questo e molto altro. Quando sono arrivata in città la prima cosa che mi ha colpito di questa povertà, ad esempio, è che, di quel poco che hanno, riescono a trarre il massimo.
Mi sono sentita misera in confronto alle donne del posto, le più eleganti del mondo: con due pezzi di stoffa, coloratissima, sono capaci di trasformarsi in vere e proprie regine.
L’abito tradizionale si chiama Grande Boubou e è damascato, fantastico, pieno di colore. I ricami rasentano la perfezione e l’aggettivo sgargiante, in questo caso, non è equivalente di pacchiano, anzi, il contrario.
C’è uno stile raffinato che le donne, ma anche gli uomini, durante le parate, indossano con rispetto.
Nasce dall’acqua
Credo che tutto parta dalla spiaggia, dal rapporto col mare. Intorno alle piroghe, tirate a secco, si muove un’intera comunità, quella dei Lebu, un’etnia senegalese che annovera nel suo status generazioni di pescatori, i quali, purtroppo -ormai da diversi anni- sono depauperati dalle grandi corporazioni cinesi, e quindi in affanno, incerti sull’avvenire.
In quegli stessi chilometri, sulla spiaggia, quando il mare si ritrae e la sabbia si allarga, centinaia di bambini si riversano su uno spazio planetario, e giocano a calcio, si divertono, corrono, sono proprietari della loro speranza.
La visione dei piccoli entra in conflitto, in pochi metri, con l’affanno dei grandi. Questo lungo tratto si chiama La Corniche, una cornice appunto, dove lo spirito dell’acqua imperversa.
Ma c’è comunque una spinta creativa, un filone di quella popolazione che spalanca le porte al mondo. Ne è un esempio il quartiere del Grande Yoff che sfida il modello occidentale, di quartiere urbano, e rilancia il villaggio delle case-museo. Un piccolo mondo antico, solidale, la cui cassa comune favorisce micro-progetti d’avanguardia, studiati perfino dai sociologi più importanti.
Mi ha colpito la casa-museo di Viye Diba, un pittore materico, la cui abitazione, -che è essenzialmente un cubo con una pittoresca bouganville che le gira intorno- internamente, è un grido all’umanità. Ci sono moltissime installazioni sui migranti e interessanti opere dedicate al genocidio del Rwanda.
Un Tesoro Vivente
Il colore della musica è ciò che più mi è rimasto dentro. Soprattutto quello ascoltato nell’Abbazia di Keur Moussa.
I Koras Concertantes hanno infiammato di suoni questo villaggio. Ero a una cinquantina di chilometri da Dakar, e il rumore della città è stato inghiottito dalla Kora, uno strumento a corde con una lunga storia.
Un monaco mi raccontò la leggenda della donna del Mali, ideatrice della Kora, che abitava le grotte di Missirikoro, scalzata dal signore della guerra, Traore, il quale si impossessò dello strumento per passarlo di padre in figlio.
All’Abbazia, una Kora di Mandingo, tradizionale, arrivò tramite un prete diocesano senegalese che la donò ai monaci, i quali la modernizzarono facendone il loro fiore all’occhiello. Il Padre fondatore dell’Abbazia, Dominique Catta, soprattutto, la introdusse nella liturgia cristiana e poi come accompagnamento alle canzoni della comunità, tanto che il suo lavoro, così originale, non passò inosservato.
All’intera comunità ha valso il Premio Albert Schweitzer e a Padre Catta il grado di Tesoro Umano Vivente, riconosciutogli dall’Unesco.
Alcuni luoghi particolari
Credo che ognuno debba vivere le proprie emozioni come meglio crede e poter portare via con sé quel che più ha toccato le corde umane.
L’Isola di Goree ad esempio è un luogo toccante.
Famosa è la fotografia dell’ex presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che si affaccia dalla Porta del non ritorno nella Casa degli Schiavi. Da lì gli africani sequestrati, venivano deportati per servire i bianchi d’America, lavorare nei campi di cotone e canna da zucchero.
Mi viene di ricollegare questo posto alla Roccia di Plymouth, in Massachusetts, dove sbarcarono i pellegrini del Mayflower per dare vita a una colonia inglese che poi sarebbe divenuta gli Stati Uniti d’America. Due punti così distanti tra loro. Una porta e una pietra. Una città e un’isola. Gli schiavi sono stati ciò che ha unito questi due punti e la questione razziale ciò che ha cambiato per sempre il volto dei due paesi.
Sul versante opposto all’Isola di Goree, ho invece scoperto il punto più a ovest dell’Africa, il Promontorio des Almadies.
Si sale per la Collina delle Mamelles, fino al faro, per godere di un panorama che spazia sulle spiagge sottostanti, verso Dakar, verso l’Isola di N’gor, per abbracciare il Monumento al Rinascimento Africano. Un complesso scultoreo, alto circa 100 metri, formato da una donna, un uomo e un bambino che simbolicamente allungano i corpi, le mani, le dita, verso il mare. Segnano, a loro modo, l’indipendenza del Senegal e la voglia di ricominciare dai senegalesi.
È il volto ormai di questo paese: chiunque passi per Dakar non manca l’appuntamento con questa famiglia universale.
Due cose da non perdere a Dakar
Potrei parlare all’infinito dei mercatini, non c’è posto al mondo più colorato, eppure mi vengono in mente due cose da racchiudere in questo racconto.
Vi consiglio, innanzitutto, di mangiare la Thieboudienne, un riso cotto nella salsa di pomodoro e cipolle, condito con pescato fresco e verdure bollite, e di approfittare di ristoranti come il Just4U se non conoscete nessuno che ve lo cucini in modo casalingo.
E infine chiudo con un albero sacro, il Baobab, quello che gli arabi definirono “Padre di molti semi”. Un tronco dalla grande circonferenza, in grado di immagazzinare acqua e ospitare colonie di pipistrelli, oltre che dare sepoltura a personalità del villaggio.
L’edificazione massiccia della città li nasconde ma, appena si lasciano alle spalle le costruzioni, questi alberi riemergono alla vista. Sono queste piante a custodire il tempo con la loro longevità: in duemila anni hanno di certo assistito alla nascita e alla morte di interi villaggi, al lento passare dei Coccodrilli, al canto dei Lamantini nei fiumi.
E non c’è nulla di paragonabile se non un luogo che è tanti luoghi.
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Sono prima di tutto una viaggiatrice, annuso la vita e ne trattengo le radici. Quindi scrivo per piacere ma anche per lavoro. Scrivo perché senza non saprei starci. E poi fotografo perché la fotocamera è il mio psicologo personale. Cammino sempre con un animale di fianco, un gatto un cane un cinghiale un ippopotamo. Insomma converso. E poi scrivo di nuovo.