Home VIAGGIO A REGOLA D'ARTE Artiste a Roma: tanti pensieri e fragilità nella mostra a Villa Torlonia

Artiste a Roma: tanti pensieri e fragilità nella mostra a Villa Torlonia

Il Casino dei Principi ospita fino al 6 ottobre il percorso di diverse donne tra Secessione, Futurismo e Ritorno all'ordine

di Emanuela Gizzi
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Artiste a Roma è una mostra che raccoglie più sguardi diversi, di donne appunto che nonostante il tempo in cui hanno vissuto, a cavallo delle due guerre, sono riuscite a ritagliarsi uno spazio pittorico, scultoreo e fotografico personale.
Sono cento le opere in esposizione presso il Casino dei Principi di Villa Torlonia che si possono visitare fino al 6 ottobre.
Visioni che hanno arricchito la prima metà del Novecento e che oggi vengono riscoperte e accomunate da un unico denominatore comune: la città di Roma.

Le artiste sono donne di ogni parte del mondo e di diversa estrazione sociale, provengono da percorsi di studio, mostre collettive e personali divergenti, ma è a Roma che hanno raggiunto l’apice del successo.
La corrente di riferimento è il Futurismo che è stato un periodo controverso.
Nella prima fase l’ideologia quasi anarchica sfociò nel cubismo, nella seconda fase invece declinò al surrealismo facendo in definitiva morire il Futurismo stesso.
Gli artisti e le artiste che vi aderirono strinsero legami con il regime fascista per poi rigettarli dopo le leggi razziali.

Mi soffermo su alcune di queste artiste a Roma,
attratta dalle opere che più mi hanno incuriosita

 

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Růžena Zátková

Růžena Zátková ha avuto una vita avventurosa, era una donna bellissima e appartenente all’elitè boema. Avvantaggiata da un indole familiare propendente all’arte, ha potuto studiare a Praga dove si è avvicinata allo stile inconfondibile di Vasilij Kandinskj e poi si è trasferita a Roma dove per la vicinanza ad Arturo Cappa -suo compagno di vita- e a Giacomo Balla -che fu tra i maggiori esponenti del futurismo- è stata riconosciuta fra le futuriste più attive del movimento letterario-artistico.
Tuttavia fu la vicinanza alle Avanguardie Russe a conferire alle sue pitture una chiave di volta. Tra i suoi quadri più famosi: Il Ritratto di Marinetti.
In mostra anche le tredici tavole recto-verso, ovvero degli acquerelli su carta in cui la formula del collage ha reso personalissima la visione della vita del Re David.
La composizione di piccoli mondi ha un che di biblico ma anche di moderno.
Sono stati realizzati tra il 1917 e il 1918, e il virtuosismo con cui la Zátková li ha “redatti” li avvicina molto alle miniature dei capolettera ma anche a una grafica arabesca.

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Edita Broglio

Edita Broglio, è stata stimolata all’arte dallo zio, il barone Raimund von Zur-Muehlen, anch’egli celebre nelle corti zarine come tenore.
Il sangue nobile della Broglio, la frequentazione dell’Accademia di Belle Arti a Koninsberg e il soggiorno a Parigi la formano, avvicinandola all’astrattismo di Kandinskij.
Ma è Roma, la campagna romana, e successivamente la guerra, che la plasmano, innescando in lei una vera e propria ricerca dei canoni antichi e dei pigmenti utilizzati nel Quattrocento.
Fonda con il marito la celebre rivista Valori Plastici che inneggia al Ritorno all’ordine e nel contempo la avvicina al Realismo magico.
Morì all’età di novantuno anni.
“Uova fresche”, del 1928-1929, nelle sue linee candide, essenziali, nell’esaltazione del bianco su bianco è un chiaro manifesto di quegli anni. Riconduce diligentemente a una pittura armonica in contrasto con l’Impressionismo e il Cubismo.

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Pasquarosa

Pasquarosa era di umili origini contadine e illetterata ma una giovane però di grande talento, o come la definì il critico d’arte, Cipriano Efisio Oppo“un fenomeno”.
Rispetto ad altre sue colleghe del tempo non si legò ad alcuna corrente, né politica né culturale, anzi, si lasciò guidare soprattutto dall’ innato istinto creativo.
Insieme a quello che divenne il futuro marito andò a vivere nella Villa Strhol-Fern, uno dei luoghi simbolo della Secessione del 13-16, dove gli artisti romani che contavano, possedevano un loro studio.
Pasquarosa entrò in contatto con grandi nomi del panorama artistico tra cui LonghiDe ChiricoGuttuso e soprattutto Pirandello che la istruì.
Il grande salto di questa giovane

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promettente avvenne nel 1929 quando la Arlington Gallery di Londra la inserì nel catalogo della mostra a lei dedicata.
Trentanove opere, una meta, all’epoca, mai verificatasi per un pittore italiano, figuriamoci per una pittrice.
Morì all’età di settantasette anni.
Il quadro Garofani e Melograni”, del 1929, è lei, nella sua freschezza, non riconducibile a uno stile generale ma al suo personale. Un’immagine descritta nei dettagli, elegante, raffinata, accogliente.

 

Maria Grandinetti Mancuso

Maria Grandinetti Mancuso proveniva da un famiglia della media borghesia colta, e viveva in un paese dell’Appennino calabro, ma frequentò l’Accademia di Belle Arti di Napoli.
Sposò un avvocato con il quale si trasferì a New York dove espose per la prima volta i suoi quadri. Poi fu la volta di Roma dove venne notata dall’esponente della Scuola Romana, Roberto Melli.
Fu proprio grazie alla sua influenza che la Mancuso raggiunse un traguardo invalicabile alle donne, la Mostra d’Arte Indipendente presso la sede del giornale L’Epoca.
Il successo però si spense quando il Melli scomparve dalla scena sociale. Lei allora si riorganizzò scrivendo sul Popolo d’Italia e partecipando a collettive organizzate dai sindacati fascisti.
Morì all’età di ottantasei anni.
Il quadro, che poi è anche la copertina della Mostra Artiste a Roma, Astrazioni di Natura Morta, del 1930, è rappresentativo del suo legame con la metafisica.
Il viso di una donna dalle fattezze orientali si sostituisce al classico cesto di frutta e diventa protagonista di quella visione di ritorno all’ordine denotato da poche linee e una narrativa asciutta.

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Adriana Pincherle

Adriana Pincherle, sorella di Alberto Moravia, e cugina di Carlo Rosselli, uno dei leader del movimento antifascista “Giustizia e Libertà”, proveniva dall’alta borghesia romana, da papà ebreo e madre cattolica.
Sono i “colori violenti” della giovane artista che la fanno notare dal critico Roberto Longhi.
Sposa anche lei un pittore e letterato, e intreccia rapporti con nomi del calibro di Flaiano, Berenson, Montale e altri.
Si ritrae in tutti i modi possibili la Pincherle, un’attività intesa a studiarsi, e per farlo si ispira alle cromie di Henri Matisse, che restano un suo tratto distintivo.
Nell’opera “Nudo con scialle”, del 1932, l’impasto dei colori rendono drammatico il quadro, lirico, poetico, vibra di suoni. C’è nella composizione un mondo interiore consapevole di sé.

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Katy Castellucci

Katy Castellucci era figlia d’arte, il pittore Ezio Castellucci è noto per i disegni illustrativi dei Promesi Sposi. Dal Lago di Como il passo verso Roma e Parigi fu breve. Appassionata di danza e teatro, approda alla pittura neocubista negli anni cinquanta. Insegnò negli istituti d’arte e divenne fautrice del disegno su tessuto.
A un certo punto della sua carriera abbandonò la pittura e decise di dedicarsi al disegno, come suo padre, realizzando un bel numero di fogli.
Era un’artista che dipingeva per sé, e quindi più trasparente, a tratti intimistica. La sua vita è stata connotata da momenti di depressione.
Morì all’età di ottant’anni.
“L’autoritratto di ragazza alla finestra”, del 1935, ha una trama ordinata. 

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La portafinestra è un muro di vetro da dietro il quale saluta qualcuno. Apparentemente, o come lei stessa ha suggerito, dovrebbe svelare una rinnovata pace.
Seppure, la verità non è solo negli occhi di chi dipinge ma anche negli occhi di chi guarda e personalmente ho rintracciato nella stesura di questa figura un che di opprimente, tanto da farmela ricondurre a un quadro iconico del 1930, American Gothic.

Marisa Mori

Marisa Mori era la figlia di Edmea Bernini, ultima discendente dello scultore Gian Lorenzo Bernini. Frequentò la scuola del pittore Felice Casorati, di cui diventò l’assistente, e sposò il poeta e giornalista Mario Mori circondandosi delle conoscenze più alte del gruppo dei futuristi.
La sua linea creativa si impastava di elementi astratti ma anche figurativi e naturalistici prediligendo le curve. Ma abbandonò il movimento di Marinetti dopo la promulgazione delle leggi razziali, che rigettò ampiamente ospitando Rita Levi Montalcini e suo marito Gino, dal quale apprese una tecnica del disegno a sbalzo.
Ritornò alle origini, cioè ad una natura classica, dipingendo figure umane.
Morì all’età di ottantacinque anni.

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Nel quadro “Le due fanciulle”, del 1935, le figure femminili leggono un libro con trasporto, sedute una di fianco all’altra.  La luce bianca e il colore deciso creano un forte contrasto, ma nonostante siano sedute c’è in loro un moto interiore, come se la cultura creasse uno stato d’animo vivo e vibrante.

 

Ghitta Carell

Ghitta Carell è stata una donna dalla mentalità fine. Nata in Ungheria da una famiglia ebraica di umili origini, presto fece carriera e si ritagliò una nicchia nell’alta società, tra finanzieri potenti, esponenti fascisti e non ultimi, dopo la Seconda Guerra Mondiale, democristiani.
Ma non solo, è stata la fotografa a cui tutti si rivolgevano nel Gotha della cultura, tra intellettuali, attori e attrici, poeti.
Le sue fotografie, a cui dedicava un particolare ritocco a mano sfumandole, erano ricercatissime, perché la lieve evanescenza addolciva i lineamenti dei ritratti.
Oltre che a Budapest Ghitta si formò anche a Vienna, Lipsia e Firenze, fino ad arrivare a Roma sotto il regime fascista.
Morì all’età di settantatre anni.
Fu l’unica tra le donne presenti in mostra che non voltò le spalle a Mussolini, anzi, dopo la promulgazione delle leggi razziali mantenne, così come le era stato consigliato dal regime, un profilo basso per poi tornare in auge quando la guerra finì.
Durante la sua carriera fotografò tra gli altri: Giulio Andreotti, Giuseppe Saragat, Alcide de Gasperi, Cesare Pavese, lo stesso Mussolini, e la figlia, Edda Ciano.
Utilizzò sempre una macchina a lastre, formato 18×24, e a volte anche una Rolleiflex 6×6. 

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Antonietta Raphael

Antonietta Raphael, ha speso la sua vita per l’arte affermando che il suo stile non poteva essere considerato solo “bizantino”.
Nacque in un piccolo villaggio della Lituania, vicino Vilnius e trascorse gran parte della sua adolescenza a proteggersi dall’antisemitismo zarista. Per questo emigrò a Londra dove vi trascorse circa venti anni.
Fu un viaggio a cambiarle la vita. Dopo essersi fermata a Parigi, infatti, decise di visitare Roma e quella città la conquistò letteralmente. 
Fu a Roma che incontrò quello che divenne il suo compagno di vita e d’arte, Mario Mafai.
E, proprio da questo sodalizio nacque la Scuola di Via Cavourall’ultimo piano di un palazzo umbertino- che si mise

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subito in forte contrapposizione con i Valori Plastici e tutta la corrente del Ritorno all’ordine.
Essenzialmente questa netta distinzione nasceva da uno stile pittorico molto più vicino all’Espressionismo che non al Futurismo.
Antonietta Raphael grazie all’incontro con lo scultore Jacob Epstein iniziò a dedicarsi all’arte di scolpire.
Quando vennero promulgate le leggi razziali si rifugiò dapprima a Forte dei Marmi e poi a Genova, dove trascorse diversi anni, e poi tornò definitivamente a Roma nel 1950.
A quel punto, viaggiò, libera di raggiungere la Sicilia, la Cina e la Spagna.
Fu il Centro Culturale Olivetti a omaggiarla con un’antologica di trentanove dipinti e tredici sculture, un vero riconoscimento per la sua poliedrica esperienza artistica.
Alla fine della carriera, oltre che portare avanti la produzione pittorica e scultorea, la Raphael si dedicò anche alla litografia .
Morì all’età di ottant’anni.

Perché non volle mai definirsi solo “bizantina”?

Seppure amasse i colori di Vasilij Kandinsky e Marc Chagall però c’erano nel suo percorso elementi legati al ricordo, sicché si esprimeva principalmente con i colori che aveva visti intorno casa di sua sorella Ester, in Ucraina.
Non erano colori russi ma bianchi zucchero, verdolini annacquati, rossi ceralacca, tinte violacee, rosate, gialli canarino e nero intenso. Colori cioè che ne hanno definito l’identità e il noto vezzo corposo.
Nella scultura, invece, la sua riconoscibile cromaticità divenne plastica perché la intese subito, e forse la praticò anche, come strumento per indagarsi interiormente.
Riflesso nello specchio”, del 1945-1961, è appunto la celebrazione di tutto questo e nei temi è rimasta sempre affezionata ad argomenti biblici e femminili dove ha potuto confrontarsi con sé stessa e lo spazio.
Anche nella scultura ha prevalso il ricordo, cioè è rimasta legata all’antica cultura ebraica e alla tragedia che ha sconvolto le loro vite.

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Artiste a Roma non è solo un excursus di arte ma una vera e propria collettiva di donne la cui esperienza artistica sul campo maturò riflessioni importanti regalando pertanto visioni, talvolta oniriche, talvolta lineari ad un pubblico pressoché ristretto.
Un connubio di pensieri affini ma anche antitetici riemersi tutti insieme, in questa epoca, di cui si può sposare o meno la visione ma che vale la pena approfondire.

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Sono prima di tutto una viaggiatrice, annuso la vita e ne trattengo le radici. Quindi scrivo per piacere ma anche per lavoro. Scrivo perché senza non saprei starci. E poi fotografo perché la fotocamera è il mio psicologo personale. Cammino sempre con un animale di fianco, un gatto un cane un cinghiale un ippopotamo. Insomma converso. E poi scrivo di nuovo.

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