Una cascata di grappoli rosati rapisce lo sguardo di Ambra e un mare indaco -alle spalle- la fa sentire protetta. Si trova tra due mondi perfetti che la riportano indietro nel tempo.
Le è pesata questa perfezione, quando è tornata a vivere a Torino, la sua città. È difficile avere a che fare con la perfezione. Ti divora.
Ma anche se è un mondo minuto, a volte compresso, l’Isola dei Pistacchi, non le è mai fuggita dal cuore. Ha trattenuto perfino l’odore di quei piccoli semi e la vista straordinaria dei mezzi agricoli al lavoro.
La cascata rosa dei gusci le indica che ancora non sono pronti.
Aveva partecipato diverse volte alla raccolta, e di lì a qualche giorno, lo sa, si sarebbe ritrovata immersa nel Fistiki Fest.
C’è solo un ostacolo tra lei e la perfezione, lei e la serenità: essere risucchiata da lui, da Costa.
I grappoli, a breve, sarebbero diventati rossi come un tramonto. E la musica, i canti, il cibo avrebbero preso il sopravvento sulle vite di tutti.
È il 30 luglio. Sull’isola si respira aria di vacanza, di turismo. È ancora in corso lo strascico post-pandemico del 2020 ma le persone hanno ripreso a tornare già da fine maggio. Questo posto non è mai affollato d’estate, e nei mesi di bassa stagione si vive a stretto contatto con la Natura, è lei la vicina di casa con cui confidarsi, prendersi un caffè, guardare scendere la notte e le stelle.
Ambra era arrivata qui la prima volta nel 2017 e aveva finito col vivere su questa isola per circa nove mesi. Era sbarcata al Porto di Souvala con un gruppo di amici e poi aveva deciso di restare. Soprattutto perché sulla sua strada aveva incontrato Titina, una donnina dal temperamento mite ma esuberante che gestiva una bottega di ceramiche. Se ne era innamorata perdutamente. Di lei, della bottega, delle sue mani d’oro. Anche Ambra era ceramista, disegnava i decori e aveva creato pezzi unici per una casa piemontese. Ma non aveva mai utilizzato la creta in quel modo. Così, presa dall’istinto, aveva deciso di fermarsi e imparare dalla donnina.
All’epoca aveva appena chiuso una storia con un uomo, faticosa e anche superficiale, e il lavoro, pure, aveva avuto una battuta d’arresto.
Quella vacanza nel 2017 era stata un premio che si era concessa per rigenerarsi. L’isola l’aveva travolta subito, appena sbarcata. Tutti ballavano, cantavano, si intrattenevano in chiacchiere, nessuno allora poteva immaginare che sarebbero andati incontro a una pandemia.
Sebbene, anche in quel momento storico, il crollo dei mercati aveva spiazzato tutti. Suo padre e suo fratello, che allora erano co-proprietari della falegnameria Musso, erano stati completamente travolti dalla crisi e si erano visti costretti a chiudere la serranda. Per quello si era sentita in obbligo di tornare in Italia, per dare loro conforto e sostenerli in un momento difficilissimo.
E la storia, in un certo senso, adesso che è di nuovo lì, le appare identica. Sbarca sull’isola dopo un anno devastante. Torino ristagna dopo l’anno di lockdown e le successive chiusure forzate. Qualcosa è ripartito ma non tutto.
Nemmeno sull’isola l’atmosfera è la stessa di prima però, al di là dei comportamenti “stoccafisso” della gente, che evita di sfiorarsi, almeno il commercio, quello, sembra essere ripartito.
Sente Torino così distante ora, la pandemia così aliena. Respira a pieni polmoni davanti alla fila di pistacchi. Inala la bellezza che può, ne fa scorta per quando dovrà tornare a casa.
Sua madre era nata ad Atene e da giovane aveva passato tante vacanze sull’Isola dei Pistacchi. Per questo, Ambra aveva voluto andarci quell’anno.
Si era ritrovata tra le mani un piccolo frammento di una cartolina, e quando aveva chiesto ai nonni, loro le avevano raccontato di questo posto speciale dove la madre si era rifugiata spesso.
A volte Ambra faticava a ricordarne la voce e aveva cancellato del tutto il suo accento ellenico, nonostante da piccola le avesse insegnato a parlare greco. Le aveva detto “magari un giorno ti servirà”.
Suo padre le aveva raccontato che si erano innamorati durante una vacanza ad Atene. Lui era lì con degli amici. Alla fine l’aveva conquistata e se l’era portata in Italia. Ma la loro felicità non era durata tutta la vita. Quando sua madre morì Ambra aveva solo dieci anni e inevitabilmente quel vuoto lasciato da lei le cambiò inesorabilmente il destino.
È da piccolina che Ambra aveva scoperto di essere un’artista come il resto della famiglia. Era successo su una spiaggia delle Cinque Terre, dove andavano in vacanza prima che sua madre morisse.
Le mani nella sabbia l’avevano portata a sognare dei mondi. E carreggiando dell’acqua, così come si vede fare sui bagnasciuga da molti bambini, aveva creato le sue opere, che non erano castelli ma stelle, lune, ciotole, alberi. Insomma la sabbia le aveva indicato la strada.
Pensa a tutto questo mentre tra i pistacchi si materializza una figura che le va incontro. È Titina. Un po’ più piccolina, un po’ più ingobbita. L’aveva chiamata al telefono diverse volte, non solo per il Natale e per la Pasqua ma anche per raccontarle di sé, sapere di lei. Non si vedevano da tre anni ma il loro rapporto era rimasto in piedi e, anzi, si era rafforzato.
È tornata per lei pur non sapendo bene il perché. Titina l’aveva convocata d’urgenza, così, lei, al telefono aveva provato a declinare.
“Non puoi semplicemente dirmi che succede, Titina? Devo venire per forza sull’isola?”.
Ma la donnina si era raccomandata di prendere un aereo e andare. Subito, le aveva detto.
Adesso sono una di fronte all’altra. E il sole, quel meraviglioso sole che inonda lo spazio tra loro, si chiude solo un attimo, quando cadono una nelle braccia dell’altra. Aveva dimenticato quanto è particolare la luce e aveva dimenticato quanto era stato bello vivere al fianco di Titina, anche se solo per nove mesi.
“Non sei cambiata per niente” le dice con affetto, pur vedendole il viso incorniciato di rughe.
“Bella che sei, non è vero, ma fingerò di crederci” le tiene le mani strette nelle sue e la guarda con una fissità disarmante.
Si incamminano, Titina arzilla con in mano un bastoncello che non poggia mai in terra, Ambra con un trolley che fa fatica a correre sul terreno. La casa di Titina si trova in mezzo ai pistacchi e c’è un profumo che una volta che lo senti non vuoi più lasciarlo andare. Tutti gli altri odori disturbano i pensieri.
Ogni cosa è al suo posto, così come la ricordava, ma è irrimediabilmente cambiata di peso. Perfino il gatto che l’accoglie con uno sbadiglio è lo stesso.
Lo accarezza e lui pare riconoscerla, o forse lei vuole semplicemente crederlo.
Non parlano per un po’. Si siedono una vicina all’altra, si guardano come se si vedessero per la prima volta. L’acqua bolle per un caffè. Il gatto si va ad accoccolare tra loro. Il telefono squilla. La radio rimanda una musica antica.
Poi è Titina a farsi avanti: “Sarai curiosa, immagino”.
Ambra ha gli occhi accesi, il verde acqua marina si fa scuro e le pupille si dilatano.
“Abbastanza Titina. Per farmi tornare qui, devi avere un motivo valido” beve un sorso di caffè, poi si acciglia subito dopo “…in realtà mi sono preoccupata, ho pensato subito a qualcosa di grave. Lo è? È qualcosa di grave?”.
La donnina si fa ancora più piccola, le scapole pesano sulla schiena. Si alza però, e prende una cartellina dal cassetto della scrivania. Se la mette davanti agli occhi, non gliela passa, sembra solo il pretesto per dirle qualcosa, come se quella rappresentasse una verità assoluta, ma riservata.
“Ti ho chiamata per aiutarmi. So che lavori. Che hai un fidanzato… comesichiama, Valerio. Che stai riprendendo in mano la tua vita. Anzi, sono fiera di te. Ma dovrò subire un intervento molto importante, al cuore. Fa i capricci, si è messo di traverso questo figlio di puttana… Insomma, in poche parole non vorrei chiudere la bottega… solo, non saprei a chi affidarla… se non a te, mi fido solo di te”.
Il fiato di Ambra è sospeso mentre il cuore batte pazzo. Si prende qualche minuto per ragionare, si alza, guarda fuori dalla finestra quello spettacolo di vista. Il mare le entra nelle pupille, le fa tornare piccoline rispetto ad una grandezza blu, smisurata. Non parla però, ha paura di pronunciare qualsiasi parola.
Allora Titina le dice “C’è una signora che crede di essere un gatto…”
Ambra sembra non sentirla, poi il senso della frase la fa voltare. Iniziano a ridere.
“È vero. Cammina come un gatto, non certo su quattro zampe, ma con le braccia mima l’incedere felino e poi, quando la gente la saluta, lei miagola”
“Mi stai prendendo in giro, dai…”
“Neanche per sogno, è la signora Agnes, abita in paese. L’hai perfino conosciuta, era già strana allora. Ti ricordi, ti ha baciato la mano… allora credeva di essere un uomo di corte” ride con tutta sé stessa, e Ambra le va dietro, infatuata da quel loro modo di stare insieme.
Quegli affetti che non si comprano, non si vendono. Non si fa nulla per tenerli così. Sono così.
Poi si fanno serie improvvisamente.
“Di quanto tempo stiamo parlando, Titina?”.
La donnina le dice “tre mesi”.
La risposta atrofizza le mascelle di Ambra.
“È tanto tempo…”.
Titina si fa grande, l’incurvatura delle spalle scompare e tutta impettita le dice “Me lo devi”.
Ambra non se l’aspettava. Dov’è finita la donnina piccola e tenera che aveva conosciuta? Prova a dirle che la licenzierebbero ma quella è dura.
“Questo perché fai un lavoro che possono fare tutti. Qui invece faresti un lavoro in cui sei insostituibile!” Poi fa un’altra cosa che non si sarebbe mai aspettata da lei, sfila da una scatola di latta alcune foto. Erano di quell’estate di quattro anni prima.
Perché lo fa? Sa che c’è anche Costa nelle foto.
Come se nulla fosse, gliele punta sotto gli occhi.
“Titina…”
“Eh… Titina… Titina… Ambra, ti sei accorta che il mondo è andato avanti?”
Prende una foto e gliela mette tra le mani, contrapponendosi al suo ostile disappunto.
“Ho bisogno di te. E poi, che viaggio stai facendo? Il viaggio non è solo la vacanza. Il viaggio è la vita di tutti i giorni. Al telefono è difficile decifrare il tuo cuore, divaghi sempre. Ma io che sono vecchia, sai, certe cose le fiuto e mi sembri così infelice. E lo sai anche tu di esserlo. Bisogna che metti un punto e riparti daccapo figlia benedetta!”.
Le toglie le foto e le ripone nella scatola di latta.
“Ora sono stanca, Titina. Ho bisogno di dormire, è stata una traversata lunga. Mi dai un giorno per pensarci?” la fissa elemosinando la sua compassione. Poi, subito dopo, l’assale contrariata “… e comunque mi hai ingannata, sai bene che al telefono la risposta sarebbe stata no, vero? Invece tu volevi che dicessi sì per forza”.
Titina scrolla le spalle, con noncuranza. Ambra quasi non la riconosce.
Poi la donnina si alza perentoria e le fa cenno di seguirla, quasi senza sentimento. Solo quando la fa accomodare nella stanza che ha preparato per lei le dice che le vuole bene come una figlia e che ha paura dell’intervento al cuore.
“Così però non vale, Titina” Ambra si lascia abbracciare e le escono le lacrime.
Quella mattinata era stata un’esplosione di emozioni contrastanti. Mentre ci pensa le squilla il cellulare. È Valerio che, incuriosito dalla misteriosa “convocazione”, ne vuole sapere di più. Ma lei non glielo dice, non gli dice ancora della richiesta di Titina. La tiene per sé. Le pare di possedere un segreto irrivelabile.
Dorme un’oretta scarsa: il potere della natura in quel luogo le fa salire l’adrenalina. Così, appena si alza, sente la necessità di uscire, di fare una corsa sul lungomare. Disfa il trolley. Si rende conto che ha portato poche cose con sé. Insufficienti per fermarsi tre mesi. Che indisciplinata quella Titina.
Mentre corre, incontra qualche persona del posto, la riconoscono, lei riconosce loro, si salutano affettuosamente, qualcuno la abbraccia nonostante il distanziamento, qualcun altro le accarezza la spalla, le guance. Sono tutti delicati con lei. Tutti la ricordano, tutti empatizzano con lei per via di Costa. Non come a Torino, dove vive da quando è nata e si sente invisibile, e nessuno sa chi sia stato Costa per lei. Gli incontri che fa la esaltano ma allo stesso modo la intristiscono. La riportano a lui.
Una donna la chiama mentre sta per risalire la collina dei pistacchi. Lei allora torna indietro saltellando per non perdere il ritmo.
Quella dice: “Ti conosco”.
Ambra le risponde: “Forse sì, ero qui quattro anni fa”.
“È vero, sei quella ragazza carina che andava in giro con Costa” si rammarica.
“Ah, che memoria, caspita!”.
Lei invece non la ricorda, perché? Guarda l’orologio, vuole riprendere la corsa, fuggire da Costa, come se lui fosse lì.
“Sei dalla Titina, vero?”
“Sì”
“Ah, dille che sabato non possiamo andare a ballare” si aggiusta la camicetta “non posso, ho degli ospiti”.
“Ballare? Non credo Titina possa farlo al momento…”
“E ti fermi per molto?” la donna insiste, la fissa, ha gli occhi piccoli e vivaci.
“Non so ancora” guarda di nuovo l’orologio, pensa a Titina che quel sabato sarebbe dovuta andare a ballare, poi sospinge via l’idea che le si è fissata in testa e aggiunge “… devo scappare, ci vediamo in giro”
“Vai… vai… tranquilla”.
“Allora arrivederci…” le fa un sorriso quasi a scusarsi per la fretta.
E quella: “Miao”.
La donna si gira prima che lei riprenda a correre.
Miao? Ambra si ferma, la guarda andare via e nota le braccia muoversi davanti a sé, leggiadre ed eleganti come quelle di un gatto. Esattamente così come gliele aveva descritte Titina.
Riderebbe fino alle lacrime se non avesse quel peso sul cuore.
Quando rientra la trova in mezzo ai fumi della cucina. Su una griglia ci sono cinque polpi belli grandi che arrostiscono a fuoco vivo, e dal forno esce un profumo stupendo di pane.
“Ti sto facendo la pita, quella vera” con le presine tira fuori il morbido pane dal forno.
“Che gioia!” i suoi occhi sono presi da tutto quel palcoscenico di prelibatezze.
Divora la pita, ci spalma la salsa Tzatziki, mangia di gusto quel burro di polpi e poi intingola il miele sulla Feta. Alla fine, Titina non le fa mancare il dolce. Ha preparato la Kataifi, una pasta fillo ripiena di pistacchi noci, mandorle e frutta secca. Croccantissima e sfiziosa.
Si siedono fuori, nella veranda che dà sul giardino. C’è una stellata che mette soggezione e un silenzio ineguagliabile.
“Domani potresti aprire la bottega?” le toglie la tazzina da sotto il naso “devo andare in ospedale per un controllo”.
La luna illumina i visi di entrambe come se fosse giorno. Tra loro un tacito compromesso.
La notte dorme come non dormiva più da tanto tempo.
Raggiunge la bottega la mattina. È la prima volta che apre lei. Una bella sensazione, si dice, avere le chiavi del posto di lavoro.
Era vero quello che le aveva detto Titina. Lei è a tutti gli effetti “sostituibile” e perfino “inadeguata” per il ruolo che svolge a Torino. Le mancava sempre un pezzetto per essere serena.
Mentre la chiave gira nel chiavistello si rende conto di quanto piacere le dia un posto tutto suo, senza un direttore che le stia col fiato sul collo e che nella migliore delle ipotesi le dica: “sì, sì, bene, fatto bene”.
Fatto bene. Sua madre non le aveva mai detto “fatto bene” quando guardava le sue opere sulla spiaggia. Le ripeteva con gli occhi rapiti “La meraviglia, Ambra, la meraviglia”. Fatto bene significa stock. Uguale. Non fa niente se fai meglio, non ci serve. Non serve che tu abbia studiato, ti sia impegnata. Fatto bene fa rodere il culo, ti rende insignificante. Non conta che gli dedichi otto ore al giorno, a volte dieci.
Accende le luci della bottega e la magia si dischiude davanti a lei. L’odore di argilla, l’intenso odore di argilla le entra nelle narici; e la sua essenza-sapienza nello stomaco.
In quel posto, sa esattamente cos’è l’argilla, quella vera. Le mani bramano di toccarla, lavorarla. Ecco, appena entra si siede e comincia a disegnare. Si guarda intorno, nota che Titina aveva continuato a lavorare alcuni pezzi suoi, glieli aveva disegnati perché aggiungesse qualcosa al suo campionario.
Se ne sente immensamente orgogliosa.
Nemmeno Titina le aveva mai detto “Fatto bene”, semmai le diceva “puoi fare meglio” oppure “Si impara sempre qualcosa in più. Io da te, tu da me!”.
Era cresciuta tanto quei nove mesi di fianco a lei. E pensava li avrebbe sfruttati al meglio in Italia, a Torino. Ma nulla. Sembrava che la poesia che le aveva donato Titina, altrove, non avesse la stessa potenza espressiva. Era rimasto un meccanismo fine a sé stesso.
“Così, è vero che sei tornata…”
Quella voce.
Quella voce. La voce che le ricorda il mare, la favola, la felicità.
È proprio dietro di lei e la fa trasalire. Non vuole girarsi. Poi vuole solo girarsi. Non si gira, resta immobile, il respiro muto.
“Sei qui per il Festival?” le chiede.
Sa che le spalle non sono giuste per lui. Non è giusto quel muro. Eppure resta così. Non crede sia davvero dietro di lei. Non crede le abbia chiesto davvero se è lì per il Festival.
Con un fremito di voce, di cui quasi si sente imbarazzata, gli risponde “No”.
“Allora sei qui per una vacanza…”
Le sembra la stessa conversazione che avevano avuta la prima volta che si erano incontrati al molo.
“Sono tornata per Titina” dice serrata, ma sente che è qualcun’altra dentro il suo corpo a parlare.
Si gira stavolta, ma fatica a guardarlo negli occhi. Lui scende gli scalini, solo tre scalini, ma le sembra subito di averlo addosso. Violento come un tuono.
Allora si rimette di spalle, fingendo di avere una creta urgente da lavorare, un disegno da ultimare. Le mani che farfugliano tra i fogli.
Sente i suoi occhi che le guardano le spalle, e avverte come un morso alla gola. Poi una carezza sottile.
“Titina? Perché? Sta male?” non lo dice agitato.
È costretta a girarsi di nuovo, nessun pretesto può giustificare le spalle. Lui è lì, bisogna che ci parli.
Costa sembra perplesso quando gli dice dell’intervento al cuore. Non sapeva nulla.
Le dice, anzi, che l’aveva vista arzilla fino al giorno prima e che lavorava sempre come una pazza.
Ambra si sente come sonnambula in questa loro conversazione. Riderebbe ora, o piangerebbe. Non lo sa. Allora alza lo sguardo e trova il coraggio di guardarlo.
Gli occhi di lui si fanno scuri, forti, densi, poi montagne, aquile, strapiombi, uragani. Casa.
Ambra incontra tutto questo trambusto e lo affronta mettendo un iceberg al centro delle sue pupille. Ci si aggrappa. Ma poi le aquile glielo portano via. Si nasconde dentro una grotta ma niente, l’uragano spazza via anche quella. L’iride di ghiaccio diventa acqua e poi acqua marina. Si scioglie in particelle trasparenti.
Le sue spalle scivolano giù, si incurvano come quelle di Titina. E resta ferma nel mondo impetuoso di lui, in quella forza che la strazia, in quella mascolinità che la invade. In quel mondo ormai distante dal suo.
Un rumore fuori li sorprende “nudi”, e lei si allontana. Gli gira le spalle ancora una volta. Ma queste non tornano alte a sostenere un grattacielo, sono ancora mogie.
“Titina è diventata un po’ egoista” lo dice a voce alta, più a sé stessa che a lui. Poi si rende conto che è una frase stupida da dire. Che gliene importa a lui?
“Egoista Titina? … quindi… non ho capito, tu devi assisterla nei giorni che si ricovera…” sembra darsi da solo la risposta più semplice.
“No”
“Ah, no. Quindi riparti subito?”
“Nemmeno”
Si gira di nuovo verso di lui, riluttante, e con una lama in mano che sta per squarciargli il petto e squarciarselo.
“Resto tre mesi… per la bottega”.
Tra loro uno spirito danza e uno muore. Un cigno vive e l’altro viene ucciso.
Ambra non ha dubbi, è lui che le ha tirato fuori quella decisione, ma adesso lei precipita.
Costa la fissa a lungo, lei sente i suoi occhi braccarla e quando lo guarda ci trova qualcosa che non aveva immaginato. Ci trova sé stessa. Non speranza o rabbia. O amore o odio. La sta guardando come lei guarda lui. Con la stessa paura.
Poi lui ridiventa forte “… E sei qui da sola?”.
Perché quella domanda. Che c’entrava adesso? Cosa glielo chiede a fare?
“Sì, anche perché non sapevo di dover restare” lo dice inselvatichita.
Qualcuno entra nella bottega, saluta con un mesto “hallo”. Non è del posto, è un inglese. Si dirige verso le mattonelle di ceramica e si muove con leggerezza tra un oggetto e l’altro. Invece Ambra galleggia, come nello spazio, e sente che l’aria la solleva, facendole perdere la cognizione del terreno. Ma il cliente non se ne accorge, guarda solo tra gli scaffali per farsi un’idea, senza rivolgerle domande o avere un suo parere.
“Meglio tu vada” gli dice con un filo di voce impercettibile.
“Sì, certo” Costa si guarda la punta delle scarpe, poi guarda lei, poi esce.
Per un secondo la forza di gravità se ne va con lui. I lavori esposti sulle mensole cadono inesorabilmente, il signore appena entrato viene risucchiato dalla porta. I suoi disegni si appiccicano al soffitto. Solo lei resta lì, dentro una navicella, senza più ossigeno però.
Durante il giorno entrano diversi clienti, tutti turisti euforici di vedere delle cose tanto belle. E tutti parlano della pandemia, delle mascherine, del senso di libertà che dà l’Isola dei Pistacchi. Lei annuisce sempre, è d’accordo, anche se la mente è ancora ferma a quando Costa era entrato poche ore prima.
Le squilla il cellulare, è Valerio.
Ciao. Ciao. Discorsi. Divagazioni. Sole magnifico. Dovresti venire. Divagazioni. Ancora divagazioni. Domande a domande. Poi a bruciapelo: “Mi fermo qui… tre mesi”. Gelo. Silenzio. Sì, hai capito tre mesi. Scuse. Rimorsi. Improvviso stato d’ansia. Ancora scuse. Ciao. Ciao.
Un bicchierino, anzi meglio due, di Ouzo. Chiude la bottega per una pausa, gira il buffo cartello disegnato da Titina dove campeggia la sua caricatura mentre corre da qualche parte. Non c’è scritto “torno subito”.
Raggiunge il Kafenion all’angolo.
Il cameriere la riconosce, le fa pure un po’ di filo, in modo simpatico e leggero.
Appena resta sola, guarda la cartellina con i disegni. Si rende conto solo adesso, vedendo quanto ha prodotto in due ore scarse, che a Torino non produceva più come un tempo e che quel poco che riusciva a trasferire su un foglio le provocava sempre insoddisfazione. Non aveva avuto più quell’ispirazione fresca di una volta.
È la luce, si dice. I paesaggi, che lì aprono il corpo e ci mettono dentro le emozioni. È l’energia lasciata agli stessi tavoli da scrittori, poeti, pittori, da Virginia Woolf, da Platone. È quella banchina che ha amato sin dal primo giorno che ci ha messo piede a darle la tempra giusta. Le era mancata tutta questa qualità della vita, le colline dolci, la sabbia velata. I polpi stesi sui fili, come fossero biancheria. La gentilezza delle persone.
Il cameriere si ripresenta al tavolino con dei pistacchi dolci e una elegante riverenza.
“Per voi, Madame”
Lei sorride semplicemente, felice di addentarli. Le erano mancati anche quelli.
Le squilla di nuovo il cellulare. Stavolta è il lavoro. Fausto Magri. È Il titolare della ditta, non Paola, la segretaria. Per evitarlo, aveva lasciato detto a lei della richiesta di un’aspettativa, in modo da dargli il tempo di attutire il colpo. Digerirlo.
Buonasera. Sì, mi rendo conto. Sì, ha ragione ma. Sì, capisco ma. È una donna anziana, ha bisogno di. Ma, non saprei, no, no, non ha nessuno. Sì, è così. No, non sto accampando scuse. Sì, lo so ma. Sì, è come dice lei ma. Ma lei non ha cuore. Basta.
Riattacca come se l’avesse punta una vespa gigante e la sua faccia si fosse gonfiata tutta. Si morde un labbro per la stizza. Per essersi lasciata travolgere da quell’uomo ottuso e poco cavalleresco.
Dopo questa conversazione poteva considerarsi ufficialmente disoccupata? Trema al pensiero di dover ricominciare tutto daccapo.
“Ecco, Madame, a voi” il cameriere le porta il resto e le prende la mano, la bacia delicato. Lei gli fa un piccolo sorriso ma il pensiero è cupo, si dimena, ripassa in rassegna ogni parola detta a Fausto Magri.
Dopo qualche secondo che è lì e ci rimugina, sente che una parte piccolina della sua anima si ribella alla disperazione. Quel “devo-cercarmi-un-altro-lavoro” non è pesante, non fa male, non dà ansia, non la fa ripiombare nel vuoto, come invece era successo tre anni prima quando aveva dovuto trovare il coraggio dentro sé stessa per andare avanti.
Fa un cenno gentile al cameriere per salutarlo e poi torna da Titina. Le racconta della telefonata col suo capo.
Ma a Titina sembra non interessare. Ambra allora si infastidisce, ce l’ha con sé stessa per essersi lasciata trascinare fin lì con l’inganno. E soprattutto la inorridisce che la donnina non abbia la benché minima compassione per il suo stato.
Avrebbe dovuto cercare di nuovo un lavoro! Lo aveva capito Titina? Ma forse quella ignora quanto sia difficile ricominciare tutto daccapo in Italia.
Dovrebbe trasferirsi a sud, si ripete da una vita, dove le ceramiche brillano di più. In Puglia, per esempio. In un borgo. Sì, avrebbe dovuto scegliere un borgo. E Valerio? Poteva seguirla. Si fa per amore, no? Lui l’amava abbastanza. Ma lei? Lei avrebbe lasciato il suo lavoro, la sua famiglia, per seguirlo?
Passa una settimana prima di rivederlo. Di rivedere Costa. È sul lato opposto della strada. Ambra si guarda intorno a lungo, poi guarda di nuovo verso quella direzione. E quando incrocia i suoi occhi non le sembra ci sia distanza tra loro, anzi, le sembra di essere bocca contro bocca con lui. Arrossisce vivamente e si volta brusca verso la vetrina alle sue spalle. Lui stava per raggiungerla ma si blocca.
Lo osserva dal riflesso sul vetro fino a che lui non scompare da qualche parte.
Divampa in volto. Si chiede se è rimasta per lui. Ma per fare cosa?
Poi un carillon esposto in vetrina attira la sua attenzione. Quella scatolina laccata ha il potere di ricordarle sua nonna quando ballava per casa. Riesce perfino a sentire la musichetta che canticchiava. La intona lievemente.
“Mhmmmh … mmmm …. Mhmmmm ….”.
Mentre è lì, tra le note antiche, una sagoma alle sue spalle la fa trasalire, le si fa vicina, la sovrasta ma senza toccarla. Dal riflesso sul vetro non le è chiaro chi sia.
“Un bel gingilletto” dice la voce. E Ambra la riconosce subito. È la signora che crede di essere un gatto.
“Salve, anche lei qui”.
La donna le si fa ancora più vicina come se volesse rivelarle un segreto.
“Non vorrebbe venire con me? Così, per prenderci un gelato, le va un gelato?” le infila una mano sotto il braccio e le fa cenno di seguirla.
“A proposito, io sono Agnes e tu, come ti chiami?”.
Ambra si presenta a sua volta mentre si lascia guidare verso il mare. Tanto, ha un paio di ore prima di riaprire.
Arrivano sulla spiaggia, è assolata a quell’ora, quasi deserta. La mano della signora Agnes la sospinge verso una grotta su cui si riflette il movimento del mare. Uno sfarfallio magico che la ipnotizza.
Sotto, compare una piccola piscina naturale e, pochi lo sanno, ancora più internamente c’è una spiaggetta sotterranea, immacolata.
“Spogliamoci, su Ambra”.
La signora Agnes ride euforica, giocando con la gonna e i bottoni della camicetta. Resta in costume in tre secondi.
Ambra non ha il costume ma, lo stesso, si toglie tutto, resta in mutandine e reggiseno, pronta a seguirla.
Alla fine avevano preso due bicchieri di Ouzo con ghiaccio. Se li portano dietro mentre entrano in mare, le mani sollevate per non far annacquare il distillato alcoolico.
Ambra si chiede quanti anni abbia, non la sa definire. Ha il viso schiacciato, misterioso, anomalo. Ma non è brutta. Solo molto strana. E con quel bicchiere in aria, mentre l’acqua le lambisce la vita, le pare una Venere moderna.
La spiaggetta si apre davanti agli occhi di Ambra che grida all’incanto.
Un occhio dall’alto, come un piccolo lucernario, fa filtrare i raggi del sole, gioca a creare ombre, figure astratte, fantasmi.
“Non la conoscevi, vero?” batte le mani entusiasta di averla sorpresa. Come se dovesse farlo, per farsi apprezzare.
“Magnifica, ma che posto è?”
“È casa mia…” sembra sorpresa che lei non lo sappia.
“Casa… tua?”
“Mi ha portata qui Zeus, è il nostro nido d’amore” gira su sé stessa guardando il lucernario. La luce bacia i suoi capelli, li fa diventare d’argento.
“Zeus è il tuo fidanzato?”
“Zeus!!! Il capo di tutti gli Dei!” lo enfatizza, ancora più sorpresa che lei non lo conosca.
Ah. Aveva smesso di essere un gatto, dunque?
“E quindi saresti sua… moglie?”
“No, sono la ninfa che gli ha fatto perdere la testa” si fa candida e maliarda, fiera di sé.
Capisco. Accidenti. E da quanto tempo siete fidanzati? Dove dormite? Dove mangiate? E ora Zeus dov’è? Aveva deciso di lasciarsi andare a quella “stregoneria”, a quella donna che un po’ strega lo era. Le inizia a chiedere seriamente le cose, come se la storia fosse reale. E quella a rispondere con altrettanta autenticità.
“C’eravamo persi. Sua moglie, quella cattiva, lo aveva allontanato da me, poi però lui mi ha ritrovata. Che felicità, così è tutto molto più facile. La vita è più facile se ti ama uno che ami” le offre uno spuntino immaginario, le porge un pesce. Le dice, è un pesce con la lisca, la devi togliere, così, fai come faccio io.
Non sa perché si stia prestando ma è una sensazione leggera a invaderla, tutto ha un peso diverso, un significato diverso. “La vita è più facile se ti ama uno che ami”. Vuole diventare anche lei qualcun altro. Un gatto, una ninfa… Le sale l’Ouzo fino alle guance, si illividiscono. L’Ouzo, che invenzione divina.
“Ti prego, non portare i tuoi amici qui, o Zeus si offenderà che te l’abbia rivelato. È il nostro posto segreto!” si mette l’indice sulle labbra e mormora uno “shhhhh” lunghissimo.
Rimangono in quel piccolo riparo dal mondo per più di un’ora e quando ne riemergono i bagnanti occupano la spiaggia.
“Devo asciugarmi, restiamo ancora un po’?
“Sì, certo. Vedi come sono tutti felici?” la ninfa-Agnes indica la battigia con un sorriso grande.
Ambra nota come le persone si muovano con discrezione, e provino anche a darsi quel metro e mezzo d’aria l’uno dall’altro ma -nonostante le paure- faticano a rispettare quell’imposizione per più di dieci minuti.
Quando arriva davanti alla bottega si sente felice. Così, ripensa a quella felicità sfumata quando aveva perso sua madre. A quella felicità sfumata quando aveva lasciato l’isola. A quando aveva perso Costa. A quella felicità sfumata quando aveva detto dei sì che volevano essere dei no. Forse troppi sì.
Gira il chiavistello e lui è lì, la fissa. Ambra sente il suo sguardo anche se lui è dietro. Sa che è lui. L’aria si muove quando c’è lui. Vorrebbe essere la signora Agnes, miagolare, dire di vivere in una spiaggia sotterranea con Zeus, e poi gridare. Gridare. Invece ascolta quel silenzio come una carezza.
“Mi sei mancata” le dice a un certo punto tagliando in due l’aria.
“Sì?”
“E io? Non ti sono mancato?”
“Può darsi” entra nella bottega, facendosi risucchiare per un po’ dall’oscurità. Ma lui la segue.
“Tuo padre e tuo fratello stanno bene?” la sua è una domanda ma è anche qualcosa di più.
Lei non lo guarda, sa già cosa vuole sapere. Perché non sei tornata più? Potevi tornare dopo aver risolto tutti i problemi, no? Perché non mi hai cercato, amato a distanza, si può fare, si può amare a distanza. Si può? Sei mesi a Torino, sei mesi sull’Isola. Un’altalena. Tornare bambini. Rivivere tutto. Rinascere sull’Isola. Si può? Ritornare al giorno che se n’era andata, si può?
“Mio padre e mio fratello si sono reinventati” dice come se fosse utile alla conversazione “e con i pochi soldi che erano rimasti hanno aperto un pastificio”.
Da una falegnameria a un pastificio il passo è molto lungo. In realtà se non ci fosse stata lei con la sua brillante capacità di creare, dare coraggio e impostargli il lavoro, loro non ce l’avrebbero fatta. Nonostante fossero molto bravi.
Suo fratello prima di lavorare con il loro padre aveva fatto dei corsi per imparare a fare la pizza. Gli era tornato utile e poi era portato per quel lavoro. La manualità, in casa Musso, rappresentava la percentuale più alta del DNA.
Solo che il Covid gli aveva sbattuto di nuovo la porta in faccia. Avevano dovuto tenere duro, come mezzo mondo, d’altronde. Adesso stanno meglio, hanno riaperto, non hanno tavolini da gestire, Green Pass e tutto il resto. Lavorano su consegna e hanno creato un sistema per il take away che funziona benissimo.
Però la chiusura della falegnameria pesava ancora sulla coscienza del padre. Era la falegnameria di famiglia, uno dei negozi più storici della città, era appartenuta ai suoi bisnonni e poi ai suoi nonni. Poi a suo padre. E lui l’avrebbe dovuta tramandare a suo figlio. Per questo aveva preso quel fallimento come una sconfitta personale, e per poco non ci si era ammalato. Ma adesso sembra aver ritrovato sé stesso.
Non gli racconta tutte queste cose. Tra loro i pensieri si accartocciano, non escono. Fanno loro compagnia il silenzio e le anime vuote degli oggetti di creta.
Gli dice a un tratto: “Non dovresti essere qui, perché sei qui? Dovresti lasciarmi vivere la mia vita in pace. Non sono tornata per te, te l’ho detto…”.
Fuori c’è una musica lenta, malinconica ma anche allegra, c’è nell’aria tutta la travolgente euforia del Festival dei Pistacchi che da lì a qualche giorno avrebbe invaso i villaggi dei pescatori, il porto, le case e le piazze. Sarebbero comparsi i torroni al pistacchio -che lei aveva amato- e le donne avrebbero esposto i merletti fatti a mano.
“Balli con me?”
Lei si gira senza riflettere e inciampa in quegli occhi che la vogliono abbracciare.
“Non… non credo sia il caso… se entra un cliente…”.
Lui si avvicina e le circonda la vita, Ambra non ce la fa a sfilarsi via. Ci cade dentro. Sente le sue mani scivolarle lungo la schiena, tenerla stretta come si tiene qualcosa di molto prezioso.
Intorno si accendono le lucette di quell’ultima notte che avevano ballato insieme, si apre la luna in alto, i filari di pistacchio, la musica sembra perfino la stessa. Una culla li dondola, li tiene insieme, le agita il cuore…
È tornata per tre mesi. Poi ripartirà, tornerà alla sua vita. Erano già stati così e non potevano più essere quella cosa là. Non potevano. Le loro vite si erano spezzate, il destino li aveva separati.
Il dolore le lacera la gola.
E poi ora c’è Valerio. Sì, c’è lui. Pensa con forza a Valerio cercando di allontanare Costa.
Valerio era entrato da poco nei suoi spazi, nelle sue giornate. Valerio è sincero, presente, incredibile con lei. L’aveva corteggiata per mesi. Sorpresa con mille attenzioni. Le aveva donato un nuovo spiraglio di luce.
Ma lei lo sa, lo sa adesso più di prima, non gli aveva mai procurato quel nodo stretto alla gola, quella compressione sullo sterno, le braccia molli, la testa persa quando erano insieme. Costa sì. Con Costa lei si era sentita libera per la prima volta nella sua vita. Era stato il primo uomo a farle perdere la testa davvero. E allora si era affidata a lui con tutta sé stessa. Senza remore.
Ma lui in qualche modo l’aveva tradita. Non aveva mantenuto i patti.
Torna in quell’abbraccio calmo, riesce a sentire il suo profumo, ci si dondola dentro. Lui la circuisce come Zeus aveva circuito la Signora Agnes. Era così bello, così semplice, così perfetto stare tra le sue braccia.
“Tra le braccia di un uomo che ti ama”.
Avrebbe voluto trasformarsi in tante matrioske, restare dentro il suo corpo per tutta la vita e oltre. Oltre.
Poi una donna entra, fa un po’ di rumore. Sorrisini. Ambra si discosta da lui, in modo violento. Avvampando negli occhi, sulle labbra, nello stomaco.
“Devi andare” lo supplica con lo sguardo, senza parlare.
Lui esce senza aggiungere altro.
Due giorni dopo accompagna Titina in ospedale. Il momento del ricovero è arrivato prima di quanto si aspettasse. Siedono fuori quando un’infermiera con una sedia a rotelle si presenta a prelevarla. Quella è gentilissima, si accende una sigaretta e le lascia chiacchierare ancora un po’. Il giardino è asettico ma possono godersi il sole.
Titina improvvisamente le dice che non vuole sia lì fuori il giorno dell’intervento.
“Vai a trovare San Nectario, piuttosto”
“Perché? Vuoi che preghi?”
“No, macché, quelli non mi ci vogliono lassù. Vai, e tieni bene aperte le orecchie, devi ascoltare…” si aggiusta la piega del vestito con una serietà aulica. Ha un anello prezioso al dito, è luccicante, e sulle sue mani rugose sembra un gioiello raro.
“Ascoltare cosa? Cos’è uno di quei santi che parla? Dai, Titina!” per un attimo pensa che anche la donnina sia stata contagiata dalla signora Agnes.
“Questo perché non sai la storia di San Nectario!” la ammonisce Titina con aria di rimprovero.
Le racconta in breve che nel monastero a lui dedicato c’è la sua bara, e che avvicinando l’orecchio, si può sentire lui che, da dentro, bussa col bastone.
“Il bastone era il suo compagno di viaggio” afferma Titina con convinzione “capisci?”.
Il giorno dell’intervento, anche se controvoglia, Ambra si reca al monastero, sospinta da una forza sinistra. Ma ormai sa che l’Isola dei Pistacchi fa quest’effetto.
Arrivata in cima, gli occhi svengono di fronte al paesaggio. Si gode la vista spettacolare e la mente si libera, dialoga con gli alberi, con il mare. Anche se Titina non glielo aveva chiesto espressamente, lei accende una candela davanti al Crocifisso e prega perché Dio la aiuti a superare l’intervento.
Aveva detto “Titina” ma si corregge subito dopo “scusa, Theodora”, nel caso Dio sbagliasse persona solo per un buffo soprannome.
Se ne sta per uscire quando un pensiero la riporta dentro. Cerca la bara. Lo chiede ad un abate che si trova a passare di lì, e quello le indica qualcosa in fondo. La guarda curioso e poi la benedice.
La bara è dove le aveva indicato. È scura. Si guarda intorno nel caso qualcuno la stesse osservando. Tende l’orecchio, prima da lontano, poi da vicino, poi lo attacca alla superficie della cassa. Non sente nulla. Quella stupidina di Titina, quante me ne fa fare, pensa. Ma appena se ne discosta ecco un tonfo secco, come di un … bastone. O qualcosa di simile.
Allora poggia di nuovo l’orecchio alla bara e il colpo è più forte del primo. Lei sobbalza all’indietro.
Cerca intorno a sé qualcuno che l’abbia sentito, ma non c’è anima viva.
Prova una terza volta ma San Nectario deve essersi stancato di lei, non si fa più avanti.
Esce trafelata guardando l’orologio. L’intervento doveva essere quasi finito.
Mentre corre verso la bottega scorge in cielo una nuvola a forma di cuore, le sembra danzi. Resta a fissarla un minuto scarso, fino a quando non si assottiglia e cambia forma.
“Scusate, scusate, apro subito” il viso ancora sconvolto dalle tante sensazioni che aveva provato. La bottega la quieta.
La notizia che le arriva dall’Ospedale è vaga ma si sente rincuorata, pare infatti che l’intervento sia riuscito perfettamente. Il giorno dopo si presenta prestissimo lì di fuori. Vorrebbe entrare ma le restrizioni non glielo consentono.
Allora chiede a un’infermiera se può gentilmente farla parlare al telefono con Titina, e quella, con molta gentilezza, si offre di aiutarla.
Qualche minuto dopo sono in video chiamata. Le sembra stia bene, quasi non avesse fatto nulla di serio.
“Sei sicura di esserti operata?”
“Certo!”
Con un cenno teatrale non le fa mistero dei suoi dolori. Poi, però, improvvisamente, come se tutto fosse diventato secondario, e in modo letteralmente compiaciuto, le chiede: “Ci sei stata, vero? Dal Santo…”.
Ambra tira su le spalle.
“E quanti colpi hai sentito?” non glielo sta solo chiedendo, è convinta li abbia sentiti.
“Due…”.
Ambra ripete il numero con le dita a V, come se il suono della voce non fosse sufficiente a renderlo chiaro.
“Ah…” Titina sembra riflettere.
“Perché? Che vuol dire?” gli occhi acqua marina diventano fondali pieni di pesci e poi di squali.
“Eh, un colpo vuol dire vento, tre colpi vuol dire bufera… e… due colpi vuol dire mare!” addenta qualcosa di simile alla pita e le sembra inforchetti dei cubetti di Feta.
Sta per chiederle se i colpi hanno un significato quando Titina la anticipa: “il vento ti spazza via, la bufera peggio, ma il mare ti riporta sempre sull’isola”.
Nei giorni successivi Ambra si interfaccia con i medici, quelli la tranquillizzano, sono sempre molto frettolosi, non le danno mai troppe spiegazioni. Il giorno prima del raccolto dei pistacchi, la dimettono. Le dicono che avrebbe potuto fare il decorso post operatorio a casa, in tranquillità, e che quello consisteva nel non fare nulla, praticamente.
Sono giorni che Costa non le compare davanti. Giorni che lo cerca negli angoli delle strade, tra la gente. Non lo aveva visto nemmeno al raccolto dei pistacchi il giorno prima.
La festa ha finalmente travolto l’isola. Così, per sicurezza, essendoci molta gente in circolazione, le istituzioni hanno irrigidito le regole, tra queste l’obbligo di indossare le mascherine anche all’aperto. Un vero calvario. In quel modo non è in grado di riconoscere le persone. La signora Agnes però la riconosce eccome. E le si avvicina.
“Felice di vederti, Ambra”
“Agnes, il piacere è tutto mio”
Si scambiano alcune considerazioni sulla festa, poi la donna la mette al corrente che Zeus non è lì perché aveva dovuto presiedere un grandissimo consiglio degli dei.
“Per salvare il mondo da questo virus, capisci cara?” si sbriga a tagliar corto, il gelato al pistacchio le si sta sciogliendo tra le dita. Poi ci ripensa e le domanda: “Cara, ma Titina come sta? Non te l’ho nemmeno chiesto! Ha risolto con la sciatica?”
“No, non la sciatica, Titina è stata operata al cuore!”
“Al cuore? Oh, Cara! Sapevo della sciatica… “ la vede contare sulle dita come se non si raccapezzasse.
Ambra sta per dirle qualcosa ma invece dice “Costa…”. Le sembra di intravederlo.
Le sfugge di bocca il suono del suo nome una seconda volta. Poi si fa rossa in viso e per nasconderlo si tira più su la mascherina, fino a scomparirci dentro.
La signora Agnes la guarda con una punta di compassione, poi si riprende e le dice: “Zeus lo ha voluto con sé, mi ha detto di dirtelo, ha bisogno di tutti per sconfiggere il male”.
Continua a leccare il gelato in modo ossessivo come se qualcuno potesse portarglielo via solo per farle un dispetto.
Si salutano, a un certo punto, perché Ambra si sente stremata dalla confusione. Ha bisogno di fissare il silenzio e le stelle. Così, se ne torna verso casa.
Durante quelle prime due giornate del Festival aveva venduto praticamente tutto quello che era sugli scaffali. Così, si mette d’impegno a lavorare nuova creta. In poco tempo crea delle opere che non sa definire. Delle statuine particolari di cui va fiera. Soprattutto del colore. Le dipinge di un verde originale, miscelato a lungo, una preparazione che la rilassa e la snerva allo stesso modo. Impiega giorni per trovare la gradazione che la soddisfi.
Ed è incredula di averle tirate fuori dalla sua testa. Era stata così vuota negli ultimi anni, sempre appresso a quei decori standard, figli di una catena di montaggio che le era sempre andata fin troppo stretta.
E dopo il Festival inizia a lavorare su altri pezzi. Sembra posseduta dal demonio.
Nella bottega di Titina trova ancora una volta la strada per rinascere, una strada che le dà piacere, le monta sulle guance un colorito fresco e la rende felice. Già, felice. Si sorprende di sentirsi così.
Chiama suo padre, gli racconta di aver fatto degli oggetti per la bottega. Sono bellissimi, aggiunge. Poi gli dice che gliene spedirà due da mettere nel pastificio. Per bellezza, ma anche per venderli, se vuole. Dopo due minuti è lì che li avvolge nella carta e ci aggiunge anche una mattonella portafortuna. Non si sa mai, di questi tempi. Le mancano lui e suo fratello.
“Come vanno le cose papà?”
“Benissimo, Ambra, benissimo. Dai, speriamo solo non richiudano”
Lei si sente sollevata. Benissimo, stanno bene.
Passa un mese senza rivedere Costa. L’ultima volta l’aveva cacciato in modo brusco. Non osa più pensarlo, si butta nel lavoro come impazzita per le tante ispirazioni.
Titina un giorno le fa una sorpresa, scende fino alla bottega.
Una volta lì resta piacevolmente colpita, ma nemmeno tanto, lei se lo aspettava da Ambra. Sapeva di aver riposto bene la sua fiducia. Le dice proprio: “Ambra Musso, sei la mia degna discendente”. E le sorride col sorriso più bello del mondo. Sincero, affettuoso.
Anche a fine settembre il lavoro non si ferma. Aveva avuto una bella idea a mandare a suo padre quelle due statuine. Nel giro di soli dieci giorni suo padre gliene ordina una ventina per alcune clienti interessate e a inizio ottobre altre cinquanta da parte di una wedding planner che dopo averle viste le ha subito proposte a una coppia di sposi come bomboniere di matrimonio. La wedding la richiama subito dopo il matrimonio e le chiede di prepararle quattro-cinque proposte diverse da inserire in un portfolio.
Anche in negozio, se pure il turismo si è di nuovo fermato, riesce a partecipare a una fiera dove le statuine vanno a ruba.
A un certo punto le viene in mente di aprire una pagina Facebook della Bottega. E anche da lì le cominciano ad arrivare alcune richieste.
Sente che il cuore le batte a mille. A Titina dice: “la pagina te la potrò seguire anche dall’Italia”. La donnina segue tutte le sue proposte con grande entusiasmo.
Poi un giorno, mentre se ne sta tornando alla casa tra i pistacchi, trova Costa sotto il portico. In una mano ha una stella marina per lei. Rosso corallo.
“Ti trovo bene”
“Ah, anche tu stai bene”
“Tra un po’ riparti, sbaglio?”
Lei sente il cuore pesarle.
“Sì”.
Dopo un silenzio addomesticato da entrambi, lui le chiede qualcosa che non si aspettava. Dice: “Ti dispiace se ti porto a cena fuori?”
Lei resta sospesa. Sta facendo sul serio?
Ambra tarda a guardarlo negli occhi, non osa. Poi prende coraggio per dirgli che non possono, lo sa. Solleva lo sguardo ma svanisce dentro le sue pupille. L’iride è ipnotica.
“Hai un vestito verde come i tuoi occhi?” le dice serio “dovresti metterlo”.
Lei resta fissa a guardarlo. Quella fissità che raggiunge luoghi senza tempo e senza nome, che non hanno una profondità, o se ce l’hanno deve essere irraggiungibile. Posti perfetti come l’Isola dei Pistacchi.
Allora sale le scale senza fare rumore e le ridiscende sui tacchi solo dopo essersi agghindata.
Non dice nulla a Titina. D’altronde, cosa avrebbe potuto dirle? Esco con Costa, andiamo a cena fuori? Meglio riposi serena, che non abbia troppe sollecitazioni il suo cuore.
Ha un vestito semplice, lo aveva comprato qualche giorno prima nel negozietto della signora Agape. Le sta d’incanto. Intorno al collo un filo brillantinato con un ciondolo a forma di gabbiano.
Si presenta davanti a lui con i capelli raccolti in alto, gli occhi spiritati che emergono fieri, come se volesse dimostrare che lo può fare davvero. Che può andare a cena con lui. Come un tempo. Una candela, un po’ di musica, le loro mani, il loro sentimento. È tutto così facile.
Titina la sente uscire, si affaccia e la vede camminare sul sentiero tra i pistacchi, è così bella in quel vestito nuovo. Le sembra felice ora. Si porta le mani al cuore, poi va verso un armadietto e si versa un bicchierino di Ouzo. Si guarda allo specchio e brinda alla sua immagine riflessa dentro. Non lo sa se ha fatto bene ma il cuore le ha suggerito così.
Sul vialetto, Costa segue Ambra come il fantasma che è, ma ha la forza di un uragano dentro.
“Non ti lascerò andare via stavolta, Ambra”.
I passi di lei si fermano. Quelli di lui no, le finisce addosso e il mondo si rovescia per un attimo. Il paradiso è la terra, la terra è il Paradiso.
Le labbra di lui la cercano.
Gli occhi sono un inferno.
La stella marina che le ha donata ce l’ha ancora in mano. La stringe ma non la sente. È una stella senza suoni, senza peso. Però sente due colpi. È il bastone di San Nectario che la riporta alla realtà.
Si tira indietro.
Costa resta lì, fermo e lontano. Fermo e trasparente.
“Devi lasciarmi andare, Costa, ti prego” le sue lacrime scivolano giù dolorose.
“Sei qui, non ci riesco”.
“Io sono qui, sì, ma tu no”.
“Ti ho amata dal primo giorno che ti ho vista”.
“Anche io Costa, e mi maledico per essere andata via… se fossi rimasta forse… forse non sarebbe successo… forse saresti ancora con me”.
“Ma io sono qui!” è talmente violento, e sincero, e sicuro nel dirlo che lei ci crede quasi.
Poi guarda le stelle. Sente di nuovo San Nectario. Due colpi. Il mare. Il mare. È come se stesse su una zattera e quella invece di seguire il mare tornasse indietro, indietro, fino alla riva. Fino alla casa di Titina.
Si volta sorpresa, felice, straziata, gli occhi pieni di lacrime e di passione, gli dice: “Resto, Costa, ho deciso di restare. Qui sono felice. Amo Titina con tutta me stessa, amo la sua bottega e amerò per sempre anche te, soprattutto te, ma devi lasciarmi vivere questa nuova vita, ne ho bisogno”.
Ambra fugge via, torna verso casa, si volta spesso ma non lo vede. Quando è sulla porta il tramonto le inonda gli occhi e lì, proprio sotto il portico, a terra, trova una stella marina ambrata, vecchia, come se avesse girato il mondo e fosse passata per milioni di mani.
La solleva, se la accosta al viso, e resta così a sentire l’odore del mare.