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La Disobbediente Artemisia Gentileschi 

Il libro di Elizabeth Fremantle è stato definito un capolavoro e, in effetti, scava nella storia profonda della pittrice romana. Leggi la recensione de "La Disobbediente"

di Emanuela Gizzi
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La Disobbediente: un libro intenso

La Disobbediente Artemisia Gentileschi è un libro che si legge tutto d’un fiato, anzi, il fiato te lo toglie per l’energia con cui viene svelata la vita della pittrice romana.
Ho terminato di leggere il libro pochi minuti fa ed è stato impellente per me voler trascinare le lettere verso altre destinazioni. Anche perché l’arte, il bisogno che si ha di sentirsi travolti da essa, è soprattutto questo: un motivo per riflettere e per essere liberi di reinterpretarla a proprio piacere.

Un ponte per le donne

Ci sono degli elementi violenti nelle pagine che Elizabeth Fremantle, l’autrice de “La Disobbediente“, consegna al grande pubblico. E sono un crescendo di altre voragini.
Un corpo unico lega l’esecuzione di Beatrice Cenci ad Artemisia Gentileschi e all’immagine iconica di Giuditta che decapita Oloferne. Le tre donne sono vittime ma anche disobbedienti. Donne che il tempo ha voluto subalterne e la cui carne è stata trafitta perché tacesse, perché non si ribellasse, perché non parlasse.
Ma i loro corpi parlano ancora, a distanza di secoli e ci dicono che una donna valeva poco o niente e che, il diritto di essere, spettava esclusivamente all’uomo.
La Disobbediente Artemisia traccia questa linea e si fa portavoce di una realtà che oggi, in qualche modo, si perpetua nell’intimità di molte case, laddove cioè l’uomo è prevaricante, ubriaco, di natura violento, contrario al che la moglie, la figlia, la madre si emancipino.
Assurdo come, a distanza di secoli, un’Artemisia Gentileschi viva ancora in alcune famiglie, la cui situazione è spesso “tutelata” dall’omertà.
Ecco perché la vera Artemisia, quella disobbediente, è oggi un faro, un esempio da seguire.
Lei ha costruito un ponte, come anche molte altre donne nella storia.

Le donne che diventano icone di resistenza e ribellione

Mesi fa ho partecipato ad un concorso letterario, portando all’attenzione dei giudici una silloge poetica “15 Muse – le pitture rubate”, dal cui titolo già si evince che prendendo spunto da quindici quadri famosi, in cui la protagonista è una donna, ho raccontato le muse al di là del dipinto. Donne che volenti o nolenti la pittura l’hanno subita ma che ancora oggi ci permettono di aprire mille porte e ci accompagnano verso le domande scomode: chi siamo, dove stiamo andando, siamo sulla strada giusta? Siamo rispettate, amate? La società ci sta trattando meglio di Artemisia, di Beatrice, di Giuditta?

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La Disobbediente Artemisia Gentileschi e un padre padrone: Orazio Gentileschi

Artemisia Gentileschi è nata nel 1593, a Roma. Ed è vissuta sessant’anni. Troppo pochi per un talento come il suo.
Sono passati quattrocento trentuno anni dalla sua nascita, eppure -ancora oggi- la donna è vittima delle angustie da parte dell’uomo e di una società patriarcale. Patriarcale. Questo termine ultimamente è abusatissimo. Ma è esattamente il termine corretto per dire che il mondo è rimasto confinato laggiù, a quel momento esatto in cui qualcuno ha deciso che la donna non avrebbe mai potuto essere al pari dell’uomo. Pertanto non tutto le sarebbe stato accessibile.
Vedi la Gentileschi: non poteva ritrarre corpi nudi, non poteva sottrarsi dalle regole del tempo in cui è vissuta, non poteva scegliersi un marito, non poteva nemmeno mettere piede fuori dalla casa del padre, il noto Orazio Gentileschi, senza il permesso dell’uomo. E quell’uomo è diventato il suo aguzzino.
Artemisia non poteva essere padrona di sé perché i padroni del suo corpo e del suo pensiero volevano essere altri. Uomini corrotti, ubriachi per metà del tempo, potenti.

L’arte della Gentileschi non scende a compromessi

Eppure la pittrice romana ha disatteso le pretese di quel mondo, si è elevata grazie alla forza del suo credo. Ha trasformato il suo corpo nella tela di un quadro, e ci ha dipinto sopra il sangue sgorgatole dal cuore, per il dolore, la prevaricazione, le ingiustizie subite. La Disobbediente Artemisia Gentileschi ha sopportato la gogna e gli insulti immeritati ed ha esibito una versione cruda della carne, si è piegata ma non si è spezzata.
La vena artistica della Gentileschi è diventata il mezzo per vendicarsi del peso costante e schiacciante degli uomini-padroni, e anche il modo più efficace di raccontare verità scomode.

Artemisia Gentileschi e Caravaggio

Se prendiamo la sua opera più significativa la Giuditta che decapita Oloferne è chiara l’influenza di Caravaggio nel tratto cruento della giovane Artemisia.
Ma bisogna fare un passo indietro: Giuditta, una giovane ebrea, diventa l’incarnazione di quello che secondo il popolo ebraico è l’intervento di Dio in Terra. La giovane si fa avanti in un momento in cui il generale assiro Oloferne sta assediando e facendo capitolare Israele. Con astuzia impugna una spada e nel sonno lo decapita.
Nell’Antico Testamento non viene mai ritratta nell’atto in cui compie l’esecuzione ma immediatamente dopo, quando cioè esce dalla tenda con la testa di Oloferne su un piatto.
E’ Caravaggio a cambiare l’immaginario collettivo, il pittore non si accontenta di raccontare una favola ma affonda il pennello nelle viscere del dittatore ucciso.
E Artemisia fa lo stesso. Ma con una maggiore efferatezza perché è lei Giuditta, è lei che vuole punire l’uomo che geme sotto il colpo della lama e ribaltare così il potere, dalle mani di quello alle sue.

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Contrariamente alle Sacre Scritture -che collocano la fantesca Abra fuori dalla tenda- Artemisia ritrae l’ancella di fianco a Giuditta, nell’atto di tenere fermo Oloferne.
Due donne che combattono il male, unite. Ecco il messaggio che porta con sé il dipinto: nuovo, originale, che si distacca anche dalla visione di Caravaggio, la cui ancella è spettatrice e partecipa solo emotivamente allo sgozzamento.

Quindi le donne debbono trasformarsi in sanguinarie per essere rispettate?

La Disobbediente Artemisia Gentileschi non ha mai fatto male nemmeno a una mosca, anzi, secondo l’autrice del libro, la pittrice -andando contro i canoni artistici del suo tempo- dipinse una mosca sulla mano di una Madonna che suo padre Orazio stava ultimando.

Segno inconfutabile che ogni forma di vita per lei era sacra.
Perciò, no, non ebbe bisogno di diventare un’assassina o di scagliarsi addosso a un uomo per diventare un’icona. L’arte le permise di colpire duramente il suo aguzzino e vendicarsi, ma senza commettere un delitto.
E l’arte è uno strumento per difendersi, più di un’arma: è uno scudo e anche una conquista. Artemisia attraverso la fiamma dell’arte bruciò il dolore, sia fisico che mentale.
Non fu solo una disobbediente ma l’artefice del suo successo.

Citazione dal libro La Disobbediente Artemisia Gentileschi

Al momento non posso entrare nei dettagli del libro per non spoilerare la trama ma voglio terminare questo articolo con un passaggio che accende i sensi ed evoca poeticamente l’atmosfera nelle botteghe.
Un passaggio con il quale mi riprometto di seguire le tracce di Artemisia Gentileschi.

Artemisia era cresciuta nella bottega del padre Orazio, dove aveva imparato i segreti delle polveri: minerali preziosi strappati alla terra, come piombo, stagno e quarzo, che combinati in un’alchimia segreta rilasciano il giallo delle primule; rari insetti del nuovo mondo che, frantumati, producono un cremisi così intenso che macchia le dita di sangue per giorni; ossa bruciate e private dell’aria, invece, creano il più nero dei neri; sterco sparso sopra piombo, di cui basta una punta per conferire la vista a un occhio dipinto; la pianta di guado che viene dall’Oriente, messa in infusione, filtrata e lasciata decantare, si trasforma in blu indaco, una tonalità che dev’essere ricoperta di lacca altrimenti sbiadisce fino a diventare un’ombra. Queste polveri non l’hanno mai delusa. Ha imparato a trarne la vita, perciò non ha più avuto bisogno di rivolgersi a Dio”.

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Sono prima di tutto una viaggiatrice, annuso la vita e ne trattengo le radici. Quindi scrivo per piacere ma anche per lavoro. Scrivo perché senza non saprei starci. E poi fotografo perché la fotocamera è il mio psicologo personale. Cammino sempre con un animale di fianco, un gatto un cane un cinghiale un ippopotamo. Insomma converso. E poi scrivo di nuovo.

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